martedì 19 settembre 2017

L’enigma della politica estera italiana. Un'intervista a Emidio Diodato




Nel secondo incontro del ciclo Il mondo in disordine, martedì 24 ottobre 2017, Emidio Diodato, professore di Scienza politica presso l’Università per Stranieri di Perugia, rifletterà sull’«enigma» della politica estera italiana in un secolo e mezzo di storia unitaria. A discutere la lettura di Diodato, introdotta da Mario Taccolini (Università Cattolica), saranno Carlo Muzzi («Giornale di Brescia») e Damiano Palano (Università Cattolica)



Emidio Diodato, politologo, insegna all’Università per Stranieri di Perugia. Ha già pubblicato: Che cos’è la geopolitica nel 2011,a curato il manuale Relazioni internazionali nel 2013 e con F. Guazzini nel 2014 La guerra ai confini d’Europa. Nel 2010 ha pubblicato Il paradigma geopolitico e nel 2014 Il vincolo esterno.

Leggi l'intervista di Virgilio Caprara a Emidio Diodato realizzata in occasione del G7 di Taormina e tratta dal blog "L'indro"

Aspettando il G7

In una Taormina blindata, i Capi di Stato e di Governo dei Paesi economicamente ‘forti’ e i rappresentanti dell’UE nella persona del Presidente del Consiglio Europeo e del Presidente della Commissione, si riuniranno fra 3 giorni per l’incontro di vertice presieduto dall’Italia, incontro che produrrà un comunicato politicamente vincolante per tutti i membri del G7.
I temi in agenda sono diversi e spaziano dalla questione migratoria agli scambi internazionali, dalla sicurezza interna al controllo delle frontiere, dalle nuove economie automatizzate al clima e alla sostenibilità ambientale. In veste di Presidente, l’Italia manterrà alta la centralità geopolitica del Mediterraneo, nel solco di un discorso fondato sui valori comuni e sul rinnovo della fiducia costitutiva che portò, già a metà degli anni Settanta, alla nascita del Vertice. Peraltro, l’attuale politica estera statunitense, le criticità sollevate dalla fuoriuscita dall’Unione della Gran Bretagna e l’esclusione di interlocutori importanti come la Cina e, soprattutto, la Russia sollevano ombre e questioni aperte che oltrepassano l’esito puntuale dell’incontro di venerdì.
Nel tentativo di comprenderne le cause, abbiamo discusso dell’Italia e del suo ruolo come attore della politica estera mondiale con il Prof. Emidio Diodatoesperto in politica internazionale e Presidente del Corso di Laurea in «Relazioni Internazionali e Cooperazione allo Sviluppo» all’Università per Stranieri di Perugia.
Professor Diodato, è possibile tracciare l’evoluzione della politica estera italiana considerando il processo di europeizzazione segnato dal Trattato di Maastricht (durante la transizione alla «Seconda Repubblica») e il ruolo dell’Italia nel Mediterraneo?
Qualche anno dopo la caduta del Muro, è avviato un processo che modificherà la politica estera e anche interna del Paese. La tappa decisiva in tal senso è segnata dal biennio 1996-1998, quando il Governo Prodi implementa il Trattato di Maastricht (del 1992), sancendo l’ingresso dell’Italia nella moneta unica, quindi accettando il ruolo jquasi costituzionale che il Trattato attribuiva alla Banca Centrale Europea. Al contempo, ciò implica l’accettazione della comunitarizzazione degli accordi di Schengen, cioè gli accordi sulla frontiera comune. Ritengo questo biennio fondamentale, in quanto si tratta di due scelte di politica estera.
Da una parte, infatti, troviamo la rinuncia alla sovranità monetaria da parte di un Paese dal forte indebitamento, che ha sempre fatto leva sul debito pubblico per il suo sviluppo e la modernizzazione economica.  Dall’altra, il fatto che l’Italia, una penisola del Mediterraneo, decida di diventare una frontiera europeain assenza di una politica europea sulle migrazioni. La mia non vuole essere una critica di quelle scelte, ma una presa d’atto della loro rilevanza, nella convinzione che, ancora oggi, gli italiani non le abbiano capite e completamente accettate, al di là dello spirito europeista che comunque è ancora presente nel Paese.
Nello scenario attuale, rispetto agli argomenti che saranno oggetto di dibattito in sede al G7, troviamo in agenda temi molto diversi. La  questione migratoria, la sostenibilità ambientale, sono ambiti decisionali per molti versi distinti e separati. Quali possono essere i rischi di ‘vuoto’? In altri termini, cosa rischia di saltare in un contesto come quello del vertice rispetto all’efficacia di una discussione rivolta a grandi aree tematiche ritenute prioritarie?
Dirò due cose in proposito. Ricollegandomi all’argomento precedente, relativo all’importanza della scelta di Maastricht e Schengen nella politica estera e interna dell’Italia, nel 2013, per quanto concerne il secondo degli aspetti (cioè l’Italia come Paese mediterraneo e frontiera comune di Schengen) l’Italia ha preso una iniziativa di politica estera autonoma rispetto all’Unione Europea, una ‘fuga in avanti‘ operata con la Missione «Mare Nostrum». L’Italia, a un certo punto, non ascoltata dagli altri Paesi europei, ha deciso in maniera unilaterale di intervenire nel Mediterraneo nel tentativo di gestire i flussi migratori, ponendo la questione a livello europeo.
Da allora, la politica estera italiana – soprattutto nel periodo del Governo Renzi – ha cercato di prendere l’iniziativa, un’iniziativa mediterranea ed euro-africana con la proposta all’UE, nell’aprile del 2016, del «Migration Compact», volta a trovare un nesso tra politica estera europea e politiche migratorie (attraverso patti di investimento, cooperazione nel controllo delle frontiere e nuove opportunità di ingresso legale in Europa). Posso ricordare un articolo, apparso il 28 maggio 2015 su «Foreign Affairs», dell’allora Ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, che in seguito, come Primo Ministro (dopo la caduta del Governo Renzi), ha continuato a perseguire questa linea. Quell’articolo è centrato sul Mediterraneo come ‘pivot’ della Storia, vale a dire come spazio inteso addirittura come perno della politica occidentale. Pertanto, l’Italia ha assunto una chiara iniziativa su queste tematiche.
Non è un caso che – veniamo al secondo aspetto della domanda – , quest’anno, ovvero l’anno di presidenza del G7, l’Italia abbia posto al primo punto delle tre priorità del G7 la gestione dalla mobilità umana, con particolare attenzione a quel che accade nel Mediterraneo e nei rapporti con i Paesi africani. Quindi è fuori dubbio che, dal 2013 al 2017, la politica estera italiana si sia orientata, in modo a mio giudizio positivo, verso il Mediterraneo e verso l’Africaper certi versi anche forzando l’Unione Europea ad assumersi le sue responsabilità. Questa è una diretta conseguenza della comunitarizzazione degli accordi di Schengen, del fatto che l’Italia sia diventata frontiera europea ed è, se vogliamo, la prova che si tratta di scelte di politica estera, come gli atti appena descritti dimostrano.
“Tuttavia, non so quali risultati questo G7 potrà portare rispetto a tali priorità. L’Italia è stato il Paese che, già dalla sua ultima presidenza del 2001, iniziò a coinvolgere i Paesi africani, quindi esiste una importante tradizione in questo. E anche nel G7 di Taormina saranno coinvolti i Paesi africani. Il tema della mobilità umana si lega anche al tema del terrorismo, ma sappiamo che c’è stato un vertice a Riad, di natura molto diversa, dove erano già presenti molti Paesi mediorientali e africani. Non so se nella mente del Presidente Trump il vertice di Taormina possa essere più importante di quello che ha già svolto a Riad. Temo che l’iniziativa italiana non troverà successo. Come, del resto, è già evidentemente fallita, ad aprile, la seconda priorità italiana del G7, cioè quella di riportare gli Stati Uniti al discorso sull’Accordo per il clima di Parigi. Il fatto che il «G7 Energia» (tenutosi a Roma il 9 e 10 aprile scorsi) si sia concluso senza un documento finale condiviso ne è la prova. Dubito che Trump, parlando questa mattina con Papa Francesco, si sia fatto convincere a inserire nel documento di Taormina la questione dello sviluppo sostenibile. Potrei sbagliarmi, ma temo che anche questa seconda priorità non arrivi a risultati”.
“La terza, quella dell’innovazione e della nuova economia produttiva automatizzata e interconnessa (c.d. «Industria 4.0»),  è un tema generale che risponde al tentativo italiano di allargare il G7 alla società civile, includendo il business. Si tratta di una pregevole iniziativa, ma anche qui  l’attuale amministrazione USA ha un’idea diversa della governance multilaterale rispetto all’apertura ‘sociale’ avanzata dall’Italia. Credo pertanto che i risultati saranno piuttosto limitati“.
Sulla scia di un commento pessimista di Romano Prodi, rilasciato a Marco Damilano in una recente intervista per «L’Espresso», nel quale l’ex premier storce il naso sul potenziale rappresentativo e decisionale degli ultimi G7, quanto possono pesare l’assenza della Cina e della Russia dal vertice di Taormina? 
Il G7 nasce durante la Guerra fredda, come luogo di incontro dei Paesi più industrializzati al mondo e, tuttora, rappresenta questo: potremmo dire, in altre parole, che l’esclusione di Russia e Cina da quel contesto ‘ha ancora un senso’. È pur vero che il G7, dopo gli eventi degli anni Novanta e la nuova riorganizzazione del sistema internazionale intorno al ‘mito’ della globalizzazione, ha tentato di trasformarsi in una struttura di governance internazionale più efficace, includendo la Russia – che pure non era un Paese industrializzato – e creando un G7+1, ossia un G8. Chiaramente, in questa prospettiva, avrebbe avuto senso includere, in un secondo tempo, anche la Cina. Si tratta un processo di riorientamento post-blocco, nella prospettiva di assumere una nuova veste istituzionale. Non è un caso che, da parte dei diplomatici, nel 1998 vi furono tentativi di creare un raccordo tra i 5 membri permanenti del Consiglio di Sicurezza ONU e il G8. Era un po’ come se la governance internazionale potesse procedere con due ‘motori‘, il secondo dei quali (il G8) avrebbe potuto, in un futuro prossimo, comprendere la Cina. Poi però è accaduto che, dopo l’annessione della Crimea, la Russia sia stata allontanata dal G8 (nuovamente G7 dal 2014), con l’esito tuttora effettivo di una retromarcia rispetto all’inclusione dei due Paesi.
Nondimeno, ci chiediamo se valga ancora la pena farlo oggi, laddove quel ruolo integrativo è assolto dal G20: il prossimo vertice di Amburgo sarà il luogo in cui la Russia avrà voce in capitolo. Paradossalmente, forse il G7 potrebbe funzionare meglio tornando alla sua originaria natura, pur rinunciando all’ambizione di diventare il secondo motore del governo mondiale. Tuttavia, con la funzione assunta del G20, il G7 potrebbe diventare il luogo in cui i Paesi più industrializzati e più affini dal punto di vista della politica estera (al di là delle contingenze dell’Amministrazione Trump) potrebbero preparare e definire una ‘missione’ comune da portare al G20, tenendo conto anche che il G7 ormai include l’Unione Europea al massimo livello. Quello sarebbe un modo in cui i principali Paesi industrializzati dell’Europa, con L’Unione Europea, riescono a coordinare le loro politiche con Stati Uniti, Giappone, Canada, Francia e anche Gran Bretagna: proprio in ragione dell’uscita di quest’ultima dall’UE, il G7 potrebbe avere un ruolo importante in questo senso. Pertanto, pur condividendo le perplessità di Prodi, dico che tutto sommato è meglio per il G7 rimanere quello che è. Personalmente, non sono deluso dal fatto che l’Italia non abbia preso l’iniziativa di riportare la Russia a Taormina. Era un atto velleitario. Non penso che se fallirà – come prevedo – questo G7, sia da imputare al Governo l’errore di non aver insistito su questa condizione.
Tutto sommato, l’Italia, con queste priorità, ha comunque ribadito le sue posizioni. Se in questa fase Trump ha priorità diverse, non potremo certo imporle noi agli Stati Uniti, però possiamo ricordargli che ci sono anche altri Paesi che hanno le nostre idee. Per esempio, Macron potrebbe essere la vera sorpresa – l’incontro con Gentiloni, avvenuto la scorsa domenica, sembrerebbe già annunciarlo. Dopo Angela Merkel, Macron si è congratulato con l’Italia, che ora potrebbe trovarsi l’Europa dalla sua parte. Inoltre il suo attuale ruolo nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite potrebbe, in qualche modo, esercitare una minima pressione su Trump.

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