venerdì 6 ottobre 2017

Guernica oggi e il ritorno inatteso della guerra civile. Una lezione di Luigi Bonanate



di Luigi Bonanate

Mecoledì 11 ottobre 2017, una lezione di Luigi Bonanate, pioniere in Italia degli studi di Relazioni Internazionali e noto soprattutto per le sue ricerche sulle trasformazioni del sistema globale e sui mutamenti della guerra, aprirà il ciclo "Il mondo in disordine. Dieci incontri sulla politica globale", presso l'aula Magna dell'Università Cattolica di Brescia (Via Trieste 17). Bonanate tornerà al bombardamento di Guernica del 1937 e al grande dipinto dedicato a quella tragedia da Pablo Picasso per riflettere non solo sui rapporti tra arte e guerra, ma anche per riconoscere in quel passaggio cruciale l’anticipazione della guerra civile globale di oggi. L'incontro sarà aperto da Damiano Palano. Interverranno Antonello Calore (Università di Brescia) e Francesco Tedeschi (Università Cattolica).

La guerra civile è tornata tra noi – o forse non se ne era mai andata, e ha semplicemente cambiato posto. Di guerre civili, l’Europa ne ha avute, nel XX secolo, di importantissime: in Spagna, in Italia, in Jugoslavia; e poi la Russia in Cecenia, e poi l’Ukraina, la Siria… Ma sembra che sia abbastanza facile dimenticarle. Dall’inizio del XXI secolo la guerra civile pare essersi insediata in quello che chiamiamo Medio Oriente (allargato) e si estende da una parte verso l’Asia centrale e dall’altra verso il Maghreb e l’Africa del Nord e del centro. Dovrà tutto ciò essere letto in una chiave geografica, dal che potremmo evincere che essa sia destinata a muoversi irrefrenabilmente, da una parte all’altra, oppure immaginare che sia in corso una straordinaria e spontanea azione di risistemazione delle condizioni di vita delle persone attraverso i continenti, per mezzo di una sorta di depurazione che insieme con le macerie e i cadaveri ricondurrebbe la storia sulla via del progresso? Persino l’arte se lo sta chiedendo… E se crediamo che l’arte sia vita, perché mai non potrebbe intrecciarsi con la guerra e cercare di spegnerla?
L’arte contemporanea (sarebbe meglio dire: le avanguardie artistiche) presta una straordinaria attenzione a ciò che sta succedendo nel mondo delle relazioni internazionali che comprendono al loro interno le diverse aree di crisi e di conflitto aperto. Produce prevalentemente opere «impegnate», che parlano di guerra: civile, interna, locale – ciascuna può essere l’indizio di una peggior difficoltà futura, l’inizio di un collegamento che mette in contatto tra loro situazioni che – se si sommassero – potrebbero avere conseguenze devastanti per l’intero mondo. Viviamo in un sistema politico internazionale completamente dis-fatto. Si può dire che ciò che ha avuto valore per 5 secoli ha perso ogni consistenza e capacità ordinatrice: senza ciò, ci si può avvicinare al precipizio. Senza regole, si perde ogni strumento di «irreggimentazione» delle tensioni.
Se Guernica è dunque la più straordinaria e affascinante prova della capacità dell’arte di sconfiggere la guerra, almeno nel cuore e nella mente di milioni di persone, l’arte di oggi assume (nuovamente) la funzione profetica di chi minaccia terribili sventure se non si provvederà a disinnescare i conflitti presenti ma anche a svuotare le contraddizioni emergenti che si trasformeranno, altrimenti, in nuove sciagure. Da Picasso a domani: un ciclo completo di storia – vorremmo che nessuno ne proclamasse la conclusione. Sarà l’arte a salvare il mondo? Non sappiamo la risposta, ma certamente per impegnarci nel riflettervi una condizione deve essere assolta: conoscere la guerra, capirla, studiarla, valutarne l’importanza rispetto alla strutturazione di ciascuno dei mondi che abbiamo conosciuto e potrebbero arrivare. Solo così potremo chiudere anche alle arti di contribuire alla comprensione e all’abolizione della violenza.

(da Luigi Bonanate, La vittoria di Gernika. Dalla guerra civile spagnola alla guerra civile mondiale, Aragno, 2017)

giovedì 5 ottobre 2017

Lo stallo catalano e la debolezza della politica



di Damiano Palano


Questa nota sul referendum per l'autodeterminazione della Catalogna è apparsa su Cattolica News il 5 ottobre 2017.


Ottant’anni dopo il tragico bombardamento di Guernica, la prova di forza a cui assistiamo tra la Generalitat catalana e il governo di Madrid torna a far aleggiare sulla Spagna le ombre del passato. Ogni paragone con il dramma della guerra civile rimane ovviamente – e fortunatamente – fuori luogo, eppure la sensazione di molti è che con il referendum di domenica si sia messo in moto un processo molto difficile da controllare.

Nella ricostruzione delle ragioni che hanno portato allo stallo di questi giorni sono state ampiamente ricordate le profonde radici culturali e le motivazioni economiche alla base dell’indipendentismo catalano. E in effetti si tratta di aspetti che non possono essere trascurati. L’identità culturale e linguistica catalana ha radici che affondano nella storia spagnola, oltre che in un movimento intellettuale e politico consolidatosi a partire dalla seconda metà dell’Ottocento e passato attraverso la lunga stagione della dittatura. La conquista dell’autonomia linguistica del catalano – di cui durante il franchismo era proibito l’utilizzo – è stata anche per questo una bandiera nella lotta contro Madrid. La rivendicazione di una maggiore autonomia fiscale rappresenta inoltre da decenni un punto critico dei rapporti con lo Stato spagnolo. Pur gestendo scuola, ospedali e polizia locale, il bilancio catalano dipende infatti dai trasferimenti del governo centrale. E se i suoi cittadini pagano in tasse ogni anno circa 60 miliardi, la Generalitat ne riceve dallo Stato circa 50. L’inizio del conflitto con Madrid parte in effetti proprio da queste due rivendicazioni. L’affiancamento del catalano al castigliano e una più consistente autonomia nella gestione del gettito fiscale sono il cuore del nuovo Statuto varato nel 2006 dalla Generalitat, nel quale la Catalogna viene definita come una “nazione”, seppur operante nel quadro dello Stato spagnolo. Il testo ottiene l’approvazione del Parlamento di Madrid, allora a maggioranza socialista, seppur con qualche sensibile attenuazione. Ma il punto di rottura si ha solo nel 2010, quando la Corte costituzionale, intervenendo sul ricorso promosso dal Partito Popolare di Rajoy (allora all’opposizione), di fatto riscrive lo Statuto, eliminando in larga parte l’autonomia fiscale e negando al catalano il medesimo rango della lingua castigliana. Da allora inizia il lungo braccio di ferro tra Barcellona e Madrid, passato per la grande manifestazione indipendentista dell’11 settembre 2012 e dal sondaggio consultivo del 9 novembre 2014 (in cui il l’80% dei votanti, pari però solo al 30% degli aventi diritto, si esprime a favore dell’indipendenza).

La bocciatura da parte della Corte costituzionale dello Statuto del 2006 spiega però solo in parte la dinamica degli ultimi anni. E soprattutto non spiega interamente perché le formazioni catalaniste siano passate nell’arco di pochi anni dalle tradizionali posizioni autonomiste a rivendicazioni esplicitamente indipendentiste. Un fattore tutt’altro che secondario è infatti la crisi che coinvolge in tutta Europa i partiti tradizionali e che porta al successo nuove formazioni, un po’ sbrigativamente chiamiate spesso “populiste”. La virata verso l’indipendentismo può infatti essere pienamente compresa solo all’interno di questo quadro.

A partire proprio dal 2010, lo scoppio della bolla immobiliare, l’esplosione della disoccupazione e i tagli al welfare sanciti prima dal governo Zapatero e poi dal governo Rajoy alimentano un clima di sfiducia e risentimento nei confronti della classe politica, che porta alla nascita di nuove forze “anti-casta” come Podemos e Ciudadanos. Anche Convergéncia i Unió (CiU), la coalizione per decenni alla guida della Generalitat e principale espressione dell’autonomismo catalano, finisce però con l’essere minacciata dal nuovo clima, se non altro perché il suo leader storico, Jordi Pujol, viene coinvolto in vari scandali giudiziari. Per far fronte a questa situazione CiU e il suo nuovo leader Artur Mas iniziano, in occasione delle elezioni autonomiche del 2012, a virare verso posizioni indipendentiste. E, contemporaneamente, incomincia ad aumentare nell’opinione pubblica anche il sostegno al progetto indipendentista.

In vista delle elezioni del settembre 2015, seguendo la nuova onda, si modifica il quadro del sistema politico catalano. Anche per effetto del terremoto politico che sta sconvolgendo la Spagna e la stessa Catalogna (dove a Barcellona le elezioni amministrativa vedono l’affermazione di una coalizione di sinistra radicale vicina a Podemos), Convergéncia i Unió si divide in due componenti: una contraria a ogni ipotesi secessionista (Unió Democratica de Catalunya), l’altra, Convergència Democràtica de Catalunya, guidata da Mas e a capo di una coalizione indipendentista, Junts pel Sí (JxSí), che comprende anche Esquerra Republicana de Catalunya (Erc), un partito repubblicano di centro-sinistra. Nel complesso le forze indipendentiste ottengono il 47% dei suffragi, ma riescono a conquistare la maggioranza assoluta dei seggi. Il governo si forma comunque solo dopo mesi di trattative, grazie al sostegno di una formazione di sinistra radicale catalanista come Candidatura d’Unitat Popular (Cup), decisiva con i suoi 10 seggi per sostenere una maggioranza. E a tenere faticosamente insieme questo fronte tanto eterogeneo – che va dalla destra fino all’estrema sinistra – è proprio un programma che promette di giungere all’indipendenza entro un anno e mezzo.

Il nuovo governo della Generalitat, guidato da una figura minore come Carles Puidgemont (preferito al troppo ingombrante Mas), risulta però estremamente debole, costantemente minacciato dalla difficile convivenza delle componenti che lo sostengono.  Ed è in fondo anche la fragilità delle leadership alla guida oggi sia della Catalogna sia della Spagna a spiegare la dinamica di questi giorni. Per un verso la fragilità della coalizione che sostiene Puidgemont – e che trova la propria ragion d’essere solo nella prospettiva dell’annunciata indipendenza – chiarisce infatti l’accelerazione del referendum di domenica. Ma, per l’altro, la debolezza del governo Rajoy, formatosi dopo le elezioni del 26 giugno 2016 (vinte dal PP, ma senza maggioranza), spiega la posizione di netta chiusura a ogni dialogo da parte di Madrid. Perché l’atteggiamento duro del governo spagnolo certo ha contribuito a rafforzare le posizioni degli indipendentisti in Catalogna. Ma, polarizzando la discussione tra “unionisti” e “indipendentisti”, ha probabilmente irrobustito nel resto del Paese la popolarità (tutt’altro che solida) di Rajoy, che può erigersi in questo modo a salvaguardia dell’unità dello Stato e della Costituzione democratica. Probabilmente, proprio puntando sulla “catalano-fobia” cresciuta negli ultimi anni in Spagna, Rajoy è riuscito ad arginare la crisi di consensi del Pp, dovuta anche ai numerosi scandali che hanno colpito il partito. E questo atteggiamento di chiusura ha favorito, a partire dal 2011, lo spostamento su posizioni fortemente critiche nei confronti degli autonomisti dello stesso Partito socialista (che anche per la sua contrarietà al referendum catalano non aveva trovato un accordo con Podemos per la formazione di un governo dopo le elezioni del dicembre 2015).

La logica dello scontro potrebbe rivelarsi alla fine difficile da gestire per entrambi i contendenti. Ma i margini di dialogo sembrano ormai davvero ridotti al minimo. Dopo il discorso del re Filippo e l’annuncio dell’imminente dichiarazione di indipendenza da parte di Puidgemont, lo scenario più probabile rimane l’intervento da parte di Madrid, con lo scioglimento del Parlamento della Generalitat, l’indizione di nuove elezioni e probabilmente l’arresto dei leader catalanisti.

Molti osservatori – tra cui lo stesso Puidgemont, ma anche il leader di Podemos Pablo Iglesias – hanno invocato nei giorni scorsi un ruolo di mediazione da parte dell’Unione europea. Non tanto perché l’Europa possa entrare in una questione che, evidentemente, rientra tra gli affari interni dello Stato spagnolo. Quanto perché probabilmente proprio questa strada rimane l’unica per attenuare lo scontro, per riportare i contendenti sul binario del dialogo, per evitare che, sull’onda della contrapposizione e della tensione emotiva di questi giorni, si giunga a decisioni irrevocabili. E forse anche per evitare il rischio che l’incertezza politica scateni il panico sulle piazze finanziarie del Vecchio continente. Ma è tutt’altro che scontato che l’Europa di oggi – lacerata da molte linee di divisione – trovi davvero la forza per rispondere a una crisi nata da due debolezze e per gestire uno stallo politico dalle conseguenze difficilmente prevedibili.

Damiano Palano

domenica 1 ottobre 2017

Lo strano caso della rappresentanza. Il classico di Hanna Pitkin pubblicato da Rubbettino, con una prefazione di Alessandro Pizzorno




di Damiano Palano

Questa recensione al volume di Hanna Fenichel Pitkin, Il concetto di rappresentanza (Rubbettino), è uscita su "Avvenire" il 29 settembre 2017. 

Eletto al Parlamento nel collegio di Bristol il 3 novembre 1774, Edmund Burke tenne ai propri elettori un discorso destinato a essere ricordato come un momento di svolta nella storia della rappresentanza politica. «Esprimere un’opinione è diritto di tutti gli uomini», affermava Burke. Per questo un rappresentante avrebbe sempre dovuto tenere nel debito conto le opinioni dei concittadini. Ma avvertiva anche che «istruzioni e mandati» erano cose «sconosciute alle leggi di questa terra». In altre parole, il rappresentante non era in alcun modo vincolato a tutelare gli interessi dei suoi patrocinatori o del suo collegio. Il suo obiettivo doveva essere piuttosto l’interesse nazionale. Perché, come scriveva in un passaggio famoso, «il Parlamento non è un congresso di ambasciatori d’interessi diversi e l’un all’altro ostili», ma è «un’assemblea deliberativa di una unica Nazione, con un solo interesse, quello dell’intero». In quel modo Burke esplicitava il principio alla base del divieto di mandato imperativo, che sarebbe stato fissato in molte carte costituzionali, ma che sarebbe stato oggetto di ricorrenti contestazioni. Ed esplicitava anche un presupposto della nostra concezione della democrazia, che si basa infatti sull’idea che determinati organi istituzionali ‘rappresentino’ l’intera «nazione», e dunque che in Parlamento sieda – benché sia materialmente assente – il «popolo sovrano».
Le vie attraverso cui si giunse a questa concezione (specificamente moderna) sono state studiate da diverse prospettive. Ma un solido punto di riferimento è costituito senza dubbio dal Concetto di rappresentanza di Hanna Fenichel Pitkin, finalmente pubblicato da Rubbettino, con un’introduzione di Alessandro Pizzorno, a mezzo secolo dalla sua uscita negli Stati Uniti (pp. 393, euro 25.00). L’idea di fondo di Pitkin è che non sia possibile giungere a una definizione univoca della rappresentanza politica. In linea generale, scrive, «nella rappresentanza ciò che non è letteralmente presente è considerato presente in un senso non letterale». Ma il punto problematico è che le modalità con cui viene resa presente una cosa assente, oltre che gli stessi soggetti che la considerano tale, cambiano a seconda del contesto e degli utilizzi del concetto. Il fatto stesso che siano state date definizioni tanto diverse – per cui la rappresentanza è intesa come stare al posto di oppure agire per, ma anche come rappresentanza descrittiva e simbolica – non è inoltre il frutto di distorsioni ed errori, ma il segnale che ci sono divergenze sostanziali sul modo di concepirne il significato. Ed è allora indispensabile considerare l’idea della rappresentanza da varie angolature, esplorando il contesto nel quale viene modificata e ricostruendo le motivazioni che di volta inducono delle correzioni. 
Nel volume, insieme alla prefazione di Pizzorno, è inserito anche un testo in cui Pitkin, a molti anni distanza, tornando sulla sua vecchia ricerca, riconosce che la critica di Rousseau aveva colto un punto debole nel funzionamento della rappresentanza. «Nonostante ripetuti tentativi di democratizzare il sistema rappresentativo, il risultato prevalente», scrive, «è stato che la rappresentanza ha soppiantato la democrazia invece di porsi al suo servizio». «I nostri governanti si sono trasformati in un’élite autoreferenziale che governa – o, meglio, amministra – masse di persone passive o individualistiche», mentre «i rappresentanti non agiscono come agenti del popolo, ma semplicemente in sua vece». Non si tratta di una critica molto diversa da quella inalberata da quanti vedono nella classe politica solo una «casta» di parassiti. Ma Pitkin non ritiene che la soluzione consista nel sostituire una nuova democrazia diretta alla vecchia democrazia rappresentativa, o che alle elezioni debba essere preferito il sorteggio. Nel solco di Hannah Arendt ritiene piuttosto che la rappresentanza democratica sia possibile solo se poggia su una robusta rete di democrazia diretta a livello locale. Perché, come scrive, solo «partecipando attivamente alla vita locale, le persone imparano il vero significato della cittadinanza».

 Damiano Palano






sabato 30 settembre 2017

Il mondo in disordine. Dieci incontri per leggere la politica globale all'Università Cattolica di Brescia (da ottobre 2017)




Dopo più di un quarto di secolo dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica, il mondo è ancora molto lontano da quel «nuovo ordine» che sembrava dovesse nascere dalle ceneri della Guerra fredda. Dopo il 2001 gli scenari di crisi non hanno anzi cessato di estendersi. La politica di potenza ha fatto nuovamente la propria comparsa nel Vecchio continente e persino le stabili alleanze ereditate dalla fine della Seconda Guerra Mondiale mostrano qualche segno di logoramento. Ma le linee di crisi si estendono soprattutto al di fuori dell’Occidente, alimentando guerre civili, diffondendo la logica del terrore e facendo riaffiorare addirittura l’incubo dell’olocausto nucleare. Tanto che, come ha ricordato in più occasioni Papa Francesco, sembra di assistere a una «guerra mondiale a pezzi». Come dobbiamo interpretare questi conflitti? Sono espressione dello «scontro delle civiltà» descritto oltre vent’anni fa da Samuel Huntington? Oppure sono la conseguenza dell’emergere di un sistema internazionale multipolare, nel quale si affacciano nuovi protagonisti? E quale futuro dobbiamo attenderci da un mondo in cui l’Occidente non occupa più il centro?

Sono questi alcuni degli interrogativi affrontati nel ciclo Un mondo in disordine. Dieci incontri per leggere la politica globale, che si svolgerà presso l’Università Cattolica di Brescia a partire dal prossimo mese di ottobre fino ad aprile 2018. Gli incontri – introdotti da Damiano Palano e Andrea Plebani – vedranno la partecipazione di autorevoli studiosi di differente orientamento disciplinare e saranno rivolti, oltre che agli studenti, anche a un pubblico interessato ad approfondire la conoscenza dei principali nodi della politica contemporanea.

Ad aprire il ciclo sarà, mercoledì 11 ottobre 2017, una lezione di Luigi Bonanate, pioniere in Italia degli studi di Relazioni Internazionali e noto soprattutto per le sue ricerche sulle trasformazioni del sistema globale e sui mutamenti della guerra. Ottant’anni dopo, discutendo con Antonello Calore (Università di Brescia) e Francesco Tedeschi (Università Cattolica), Bonanate tornerà al bombardamento di Guernica del 1937 e al grande dipinto dedicato a quella tragedia da Pablo Picasso per riflettere non solo sui rapporti tra arte e guerra, ma anche per riconoscere in quel passaggio cruciale l’anticipazione della guerra civile globale di oggi.
Nel secondo incontro, martedì 24 ottobre, Emidio Diodato, professore di Scienza politica presso l’Università per Stranieri di Perugia, rifletterà sull’«enigma» della politica estera italiana in un secolo e mezzo di storia unitaria. A discutere la lettura di Diodato, introdotta da Mario Taccolini (Università Cattolica), saranno Carlo Muzzi («Giornale di Brescia») e Damiano Palano (Università Cattolica)
Nel terzo incontro, martedì 31 ottobre, Gianluca Pastori e Mireno Berrettini, docenti della Facoltà di Scienze politiche e sociali dell’Università Cattolica, stileranno un bilancio provvisorio dell’amministrazione di Donald Trump, a un anno dall’elezione del nuovo presidente, nel tentativo di capire quali sono stati (e quali prevedibilmente saranno) i principali mutamenti nel ruolo internazionale degli Stati Uniti.
Nel quarto appuntamento, mercoledì 8 novembre, Corrado Stefanachi, politologo dell’Università degli Studi di Milano, discuterà con Andrea Locatelli (Università Cattolica) delle trasformazioni della geopolitica americana e, adottando una prospettiva di lungo periodo, si soffermerà soprattutto sul paradosso di una potenza all’apparenza «invulnerabile» eppure «insicura».
Nel quinto incontro, martedì 14 novembre, Raul Caruso (Università Cattolica) illustrerà i cardini di un’«economia della pace». In particolare Caruso, tra i principali esponenti italiani di una «scienza della pace», mostrerà quali sono le cause economiche che possono favorire i conflitti e indicherà anche una serie di proposte che – incidendo sul contesto in cui gli Stati e gli individui si trovano a operare – siano in grado di ridurre i conflitti e la corsa agli armamenti.
Nel sesto appuntamento del ciclo, mercoledì 22 novembre, Andrea Plebani (Università Cattolica) Paolo Maggiolini (Università Cattolica), Alessia Melcangi (Università di Firenze) e Alessandro Quarenghi (Università Cattolica), discuteranno delle relazioni tra nazionalismo e religione nel mondo contemporaneo. L’attenzione sarà in particolare rivolta al Medio Oriente, con l’obiettivo di chiarire quale ruolo gioca il nazionalismo in molti dei conflitti che negli ultimi anni hanno investito quella regione.
Il 29 novembre, in occasione del settimo incontro del ciclo, sarà la volta di Massimiliano Trentin (Università di Bologna), che discuterà insieme ad Andrea Plebani e Michele Brunelli (Università Cattolica) dell’organizzazione del cosiddetto «Stato islamico» in Medio Oriente, ma anche della minaccia che esso rappresenta per l’Europa.
Martedì 27 febbraio 2018, nell’ottava tappa del ciclo, Massimiliano Panarari, docente di Comunicazione politica alla Luiss di Roma ed editoralista di diverse testate, parlerà del ruolo della manipolazione nella politica novecentesca. Partendo da un suo libro recente e discutendo con Gabriele Colleoni («Giornale di Brescia»), tornerà al grande laboratorio della Prima guerra mondiale, per mostrare come proprio le necessità belliche abbiano fatto nascere la propaganda moderna, utilizzata in seguito dai regimi totalitari e dalla comunicazione politica contemporanea.
Nel nono appuntamento, martedì 20 marzo 2018, Enrico Fassi (Università Cattolica) ripercorrerà, insieme ad Andrea Plebani, i diversi tentativi dell’Unione europea di sviluppare una politica estera nel Mediterraneo e nelle regioni orientali. E, insieme ai successi, mostrerà come molte delle speranze nutrite negli anni Novanta del secolo scorso si siano infrante e richiedano dunque nuove soluzioni.
Nell’ultimo appuntamento, venerdì 20 aprile 2018, Vittorio Emanuele Parsi, docente di Relazioni Internazionali all’Università Cattolica, Direttore dell’Aseri (Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali) ed editorialista di «Panorama», «Sole 24 Ore» e «Avvenire», rifletterà sulle grandi sfide che investono oggi il sistema internazionale. Discutendo con Nicola Pasini (Università degli Studi di Milano), prenderà in esame tutte le e tendenze che indeboliscono le istituzioni internazionali sorte alla fine della Seconda Guerra Mondiale e che sembrano rendere sempre più difficile contenere le aspirazioni di vecchi e nuovi protagonisti.
  
   

Programma

Primo incontro
Mercoledì 11 ottobre 2017 - ore 15.00
Da Guernica alla guerra civile globale

Introduce Damiano Palano
Intervengono Luigi Bonanate (Università di Torino), Antonello Calore (Università degli Studi di Brescia) e Francesco Tedeschi (Università Cattolica)

A partire dal volume di L. Bonanate, La vittoria di Gernika, Aragno, 2017


Secondo incontro
Martedì 24 ottobre 2017 – ore 15.00
Qual è il posto dell’Italia?
L’enigma della politica estera italiana (ieri, oggi, domani)

Introduce Mario Taccolini
Intervengono Emidio Diodato (Università per Stranieri – Perugia), Carlo Muzzi («Giornale di Brescia») e Damiano Palano (Università Cattolica)

A partire dal volume di E. Diodato – F. Niglia, Italy in International Relations: The Foreign Policy Conundrum, Springer, 2017


Terzo incontro
Martedì 31 ottobre 2017 – ore 15.00
Effetto Trump? Gli Stati Uniti un anno dopo

Introduce Damiano Palano
Intervengono Gianluca Pastori (Università Cattolica) e Mireno Berrettini (Università Cattolica)

A partire dal volume di Massimo de Leonardis (a cura di), Effetto Trump? Gli Stati Uniti nel sistema internazionale fra continuità e mutamento, «Quaderni di Scienze Politiche», n. 12, 2017


Quarto incontro
Mercoledì 8 novembre 2017 – ore 15.00
L’impero fragile. Le trasformazioni della geopolitica americana

Introduce Damiano Palano
Intervengono Andrea Locatelli (Università Cattolica) e Corrado Stefanachi (Università degli Studi di Milano)

A partire dal volume di C. Stefanachi, America invulnerabile e insicura, Vita e Pensiero, 2017


Quinto incontro
Martedì 14 novembre 2017 – ore 15.00
Quale economia per la pace?

Introduce Damiano Palano
Interviene Raul Caruso (Università Cattolica)

A partire dal volume di R. Caruso, Economia della pace, Il Mulino, 2017


Sesto incontro
Mercoledì 22 novembre 2017 – ore 14.30
Nazionalismo e religione nel mondo contemporaneo

Introduce Andrea Plebani
Intervengono Paolo Maggiolini (Università Cattolica), Alessia Melcangi (Università degli Studi di Firenze) e Alessandro Quarenghi (Università Cattolica)

A partire dal volume di Paolo Maggiolini - Marco Demichelis (a cura di), The Struggle to Define a Nation. Rethinking Nationalism in the Contemporary Islamic World, Gorgias, 2017


Settimo incontro
Mercoledì 29 novembre 2017 – ore 14.30
L’ultimo califfato?

Introduce Andrea Plebani
Intervengono Massimiliano Trentin (Università di Bologna), Michele Brunelli (Università Cattolica)

A partire dal volume di Massimiliano Trentin (a cura di), L' ultimo califfato. L'organizzazione dello Stato islamico in Medio Oriente, Il Mulino, 2017


Ottavo incontro
Martedì 27 febbraio 2018 – ore 15.00
La guerra dell’informazione e il potere della manipolazione

Introduce Damiano Palano
Intervengono Massimiliano Panarari (Luiss – Roma) e Gabriele Colleoni («Giornale di Brescia»)

A partire dal volume di M. Panarari, Poteri e Informazione. Teorie della comunicazione e storia della manipolazione politica in Italia (1850-1930), Le Monnier, 2017.


Nono incontro
Martedì 20 marzo 2018 - ore 15.00
L’Europa e il mondo
L’Unione europea alla ricerca di una politica di vicinato

Introduce Damiano Palano
Intervengono Enrico Fassi (Università Cattolica), Andrea Plebani (Università Cattolica)


Decimo incontro
Venerdì 20 aprile 2017 – ore 15.00
La fine dell’ordine internazionale

Introduce Damiano Palano
Partecipano Vittorio Emanuele Parsi (Università Cattolica - Aseri) e Nicola Pasini (Università degli Studi di Milano)






I fantasmi di Weimar sulla Germania di oggi




di Damiano Palano

Questa nota sulle elezioni tedesche è uscita sul "Giornale di Brescia" venerdì 29 settembre 2017.


Il risultato ottenuto da Alternative für Deutschland nelle elezioni tedesche ha comprensibilmente destato più di qualche allarme. Il ritorno sulla scena politica di una formazione di destra radicale dopo molti anni richiama inevitabilmente alla mente gli spettri del passato. E il fatto che i deputati di Afd occuperanno quasi un quinto dei seggi del Bundestag non può essere certo trascurato. Ma, al di là di questi aspetti, i risultati delle elezioni tedesche fanno emergere soprattutto una serie di tendenze importanti. Innanzitutto, confermano l’erosione dei consensi ai partiti tradizionali, un dato particolarmente rilevante in un paese come la Germania, in cui i grandi partiti di massa hanno a lungo dimostrato una notevole capacità di resistere ai mutamenti sociali e politici. Non si tratta comunque solo di una dinamica innescata dalla crisi economica o dai flussi migratori. A partire dagli anni Novanta il numero di elettori fluttuanti anche in Germania è infatti progressivamente cresciuto, proprio a danno delle forze tradizionali. Se ancora nel 1998 i due partici storici, Cdu/Csu e Spd, si spartivano più del 75% dei suffragi, oggi quella percentuale si è ridotta a poco più del 50%. Una seconda tendenza è rappresentata inoltre dalla spinta alla polarizzazione. In altre parole, gli elettori sembrano guardare sempre meno alle forze ‘moderate’, collocate al centro dello spazio politico, e tendono invece a spostarsi verso le ali estreme. 
Un terzo aspetto su cui attirare l’attenzione riguarda infine l’assetto complessivo del sistema partitico tedesco, che con le elezioni di domenica ha smarrito alcune delle sue caratteristiche distintive. Tanto che la sua fisionomia appare oggi un po’ più simile a quella che contrassegnava la Germania di Weimar. Il sistema elettorale proporzionale, corretto da una significativa soglia di sbarramento, aveva infatti consentito a lungo di limitare il numero dei partiti. E una serie di interventi del Tribunale costituzionale aveva contribuito allo stesso risultato, decretando lo scioglimento di alcune formazioni estremiste. Per effetto di questi vincoli, la competizione si svolse per circa quattro decenni principalmente tra Cdu/Csu e Spd, con il piccolo partito liberale a svolgere una funzione di ago della bilancia. L’ingresso in parlamento dei Verdi e poi la riunificazione tedesca iniziarono invece a modificare il quadro. E le elezioni di domenica hanno sancito la transizione a un nuovo assetto. Il fatto che al Bundestag siano ora presenti ben sei partiti (Cdu/Csu, Spd, Afd, i liberali di Fdp, i Verdi e la sinistra radicale) non configura semplicemente un aumento del numero dei protagonisti. Ma innesca probabilmente una nuova dinamica. Utilizzando le vecchie categorie di Giovanni Sartori, il pluripartitismo tedesco cessa di essere “limitato” e “moderato” per diventare “estremo” e soprattutto “polarizzato”. Un sistema contrassegnato cioè da un elevato numero di partiti, dalla presenza di formazioni “anti-sistema” (o percepite come tali), da un’elevata distanza ideologica tra gli attori, e soprattutto – proprio come la vecchia Repubblica di Weimar - caratterizzato da una spinta centrifuga. Perché le ali estreme, escluse da qualsiasi possibile maggioranza, tenderanno probabilmente a radicalizzare la loro propaganda, erodendo sempre di più le dimensioni del ‘centro’.

È ancora presto per capire se il ridimensionamento delle forze moderate sia un dato congiunturale o qualcosa di più. Ma è probabile che nei prossimi anni la polarizzazione, nelle sue diverse componenti, sia destinata a crescere in tutte le democrazie occidentali. Non solo per gli effetti della crisi economica, per il risentimento che cova nelle classi medie occidentali e per la percezione di insicurezza che domina nell’opinione pubblica. Ma anche per le caratteristiche del nuovo contesto comunicativo in cui operano gli attori politici. Oggi molti cittadini traggono infatti le loro informazioni da un medium ‘personalizzato’ come internet, e non più da un medium generalista come la tv. E anche un simile mutamento è destinato a favorire la crescente polarizzazione. Gli elettori di domani (ma forse lo sono già oggi) non saranno più il “pubblico” relativamente compatto e omogeneo del medesimo spettacolo politico, ma potrebbero frammentarsi in una miriade di segmenti autoreferenziali e sempre più ‘polarizzati’. Il nuovo contesto potrebbe allora aprire ulteriori spazi di manovra alle forze che si presentano come “sfidanti” dell’establishment. E persino la Germania potrebbe correre il rischio di imboccare ancora una volta la strada per Weimar.


Damiano Palano


mercoledì 27 settembre 2017

L’enigma della politica estera italiana (ieri, oggi, domani). Emidio Diodato a Brescia martedì 24 ottobre 2017




Nel secondo incontro del ciclo Il mondo in disordine, martedì 24 ottobre 2017, Emidio Diodato, professore di Scienza politica presso l’Università per Stranieri di Perugia, rifletterà sull’«enigma» della politica estera italiana in un secolo e mezzo di storia unitaria. A discutere la lettura di Diodato, introdotta da Mario Taccolini (Università Cattolica), saranno Carlo Muzzi («Giornale di Brescia») e Damiano Palano (Università Cattolica)



Emidio Diodato, politologo, insegna all’Università per Stranieri di Perugia. Ha già pubblicato: Che cos’è la geopolitica nel 2011,a curato il manuale Relazioni internazionali nel 2013 e con F. Guazzini nel 2014 La guerra ai confini d’Europa. Nel 2010 ha pubblicato Il paradigma geopolitico e nel 2014 Il vincolo esterno

Leggi una recensione al suo libro Vincolo esterno



L’ortopedia del «vincolo esterno». Un libro di Emidio Diodato sulla de-democratizzazione italiana dopo Maastricht

di Damiano Palano


Nel 1977 Guido Carli – che allora ricopriva la carica di Presidente di Confindustria, dopo essere stato dal ’60 al ’75 governatore della Banca d’Italia – rilasciò a Eugenio Scalfari una lunga intervista, nella quale esponeva la propria lettura del ‘caso italiano’ e della crisi in cui versava allora il paese. L’interpretazione che svolgeva Carli non era in fondo molto originale, perché individuava alla base della crisi economica un progressivo deterioramento dello «spirito imprenditoriale», un processo innescato inizialmente dalla nazionalizzazione dell’industria elettrica e dagli effetti negativi del credito agevolato, ma poi condotto a termine dalle mobilitazioni sindacali della fine degli anni Sessanta. Come sintetizzava nitidamente lo stesso Carli: «dal ’69 in poi questo processo di distruzione vera e propria dello spirito imprenditoriale ha registrato un’accelerazione senza confronti col passato. Lo Statuto dei lavoratori e la rigidità della forza-lavoro: sono stati questi i due momenti fondamentali del deterioramento della situazione. Con essi siamo arrivati al culmine della disgregazione del sistema» (G. Carli, Intervista sul capitalismo italiano, a cura di E. Scalfari, Laterza, Roma – Bari, 1977, p. 113). 
Se queste dinamiche, secondo Carli, avevano fatto precipitare la situazione dell’economia italiana, l’ex-governatore dalla Banca d’Italia ritrovava però anche una contraddizione di fondo nelle scelte compiute dalla classe politica italiana: una contraddizione che scaturiva, da un lato, dalla decisione adottata alla fine degli anni Cinquanta di aderire alla Comunità Europea, e, dall’altro, dal permanere di una diffidenza, se non di una vera e propria ostilità, nei confronti della logica dell’economia di mercato. In altre parole, secondo Carli la classe politica italiana non si era resa conto, al momento dell’adesione alla Cee, di cosa quella decisione avrebbe comportato, e in special modo non si era resa conto che – laddove non fosse intervenuto un adeguamento delle strutture del paese – l’economia nazionale non sarebbe stata in grado di affrontare la competizione degli altri partner europei. In questo senso Carli osservava, dinanzi all’allora direttore di «Repubblica»: «Fu un errore non rendersi conto delle conseguenze che quell’adesione avrebbe avuto e dei mutamenti che essa obbligatoriamente comportava. Mi sembra insomma che all’origine della nostra crisi vi sia una profonda contraddizione tra l’aver ‘affondato’ l’economia italiana nel sistema dell’economia di mercato dominante in tutt’Europa e, nello stesso tempo, l’aver conservato o addirittura accresciuto un atteggiamento di ostilità verso l’economia di mercato e verso i meccanismi che vi presiedono» (p. 65).
Carli naturalmente non era affatto contrario all’adesione alla Cee, di cui era stato anzi a suo tempo uno strenuo sostenitore e della cui opportunità continuava a essere fermamente convinto anche negli anni Settanta. Ciò di cui si rammaricava era invece la miopia della classe politica italiana, una miopia che scaturiva a suo avviso proprio dall’ostilità ‘culturale’ nei confronti del ruolo imprenditoriale da parte non solo del mondo sindacale e della sinistra, ma da parte anche di una porzione consistente del mondo democristiano. Ad avviso di Carli, non si trattava inoltre di elementi congiunturali, legati a quel periodo specifico, perché erano atteggiamenti profondamente radicati nella società italiana e molto difficili da scardinare o modificare. Proprio per questo dall’Intervista sul capitalismo italiano emergeva un marcato pessimismo, che certo non precludeva l’individuazione di qualche spazio d’azione, ma che d’altro canto appariva molto lontano dal prefigurare margini di ripresa. 
Nonostante le cupe previsioni di Carli, l’economia italiana iniziò di lì a qualche anno a mostrare segni rilevanti di ripresa, tanto che gli anni Ottanta – a torto o a ragione – sono ancora oggi ricordati da molti come una sorta di perduta «età dell’oro». Che quella crescita, per quanto favorita anche dall’esplosione del made in Italy, fosse in misura non marginale legata anche a quell’espansione del debito pubblico di cui ancora oggi ci troviamo a pagare le conseguenze, era però ben chiaro a Carli. Anche per questo non abbandonò neppure nel corso degli anni Ottanta la propria diffidenza nei confronti della classe politica italiana, giudicata inadeguata a gestire un paese sottoposto a crescenti pressioni internazionali. E così – prima ancora che esplodesse la crisi della cosiddetta «Prima Repubblica» – ricercò le condizioni per introdurre nel sistema italiano una sorta di riforma ‘invisibile’, capace di costringere gli attori politici a rispettare, persino contro la loro stessa volontà, la disciplina dei conti pubblici e i principi dell’economia di mercato. Più specificamente Carli – che fu Ministro del Tesoro nell’ultimo governo Andreotti, al principio degli anni Novanta – individuò nel negoziato europeo che avrebbe condotto alla firma del Trattato di Maastricht, il 7 febbraio 1992, l’opportunità per imporre al sistema italiano quello che più tardi, nelle sue memorie, l’ex-governatore definì un «vincolo esterno»: «La nostra scelta del ‘vincolo esterno’», si legge infatti nelle sue memorie postume, «nasce sul ceppo di un pessimismo basato sulla convinzione che gli istinti animali della società italiana, lasciati al loro naturale sviluppo, avrebbero portato altrove questo Paese» (G. Carli, Cinquant’anni di politica italiana, in collaborazione con Paolo Peluffo, Laterza, Roma – Bari, 1993, p. 267). Naturalmente la classe politica – che già non aveva intuito quali fossero le implicazione dell’adesione alla Comunità Europea – non comprese neppure quali sarebbero state le conseguenze di Maastricht, e in particolare – come lo stesso Carli non mancava di osservare – non si rese conto che, sottoscrivendo i vincoli fissati dal Trattato, accettava di fatto «un cambiamento di una vastità tale che difficilmente essa vi sarebbe passata indenne» (ibi, p. 437).
Oggi, a quasi un quarto di secolo dalle trattative che condussero a Maastricht, ci appare del tutto chiaro come il «vincolo esterno» abbia pesato sulla politica italiana molto più di ogni altro aspetto, tanto che persino l’intera parabola del bipolarismo della «Seconda Repubblica» può essere considerata come un tentativo – più o meno riuscito – di rispettare (o aggirare) quel vincolo. E proprio per questo è davvero importante il libro di Emidio Diodato, Il vincolo esterno. Le ragioni della debolezza italiana (Mimesis, pp. 172, euro 15.00), un testo che non si sofferma solo sul presente e sul passato recente, ma si spinge anche all’indietro, per meglio comprendere le radici di un processo che giunge a manifestarsi compiutamente solo al principio del XXI secolo. Il libro di Diodato, politologo dell’Università per Stranieri di Perugia, non è infatti solo dedicato alla politica italiana della «Seconda Repubblica», perché – adottando una prospettiva davvero fruttuosa, e assai poco praticata in Italia – tenta anche di cogliere l’interazione fra la dimensione interna e quella internazionale. Da questo punto di vista, Diodato richiama infatti la vecchia (ma spesso dimenticata) lezione di Otto Hintze, secondo cui il mutamento nell’assetto interno di uno Stato costituisce il riflesso – ovviamente non automatico – delle trasformazioni del sistema internazionale. E, inoltre, ricostruisce la relazione problematica fra lo Stato e la democrazia in Italia, evidenziando la portata dei due «vincoli esterni» che, prima di quello di Maastricht, ‘ancorarono’ il sistema: l’adesione agli istituti di Bretton Woods, dopo la seconda guerra mondiale, e l’entrata nel Sistema Monetario Europeo nel 1979. Ma ovviamente l’analisi è proiettata soprattutto sul terzo «vincolo esterno», rappresentato da Maastricht. E proprio riesaminando il significato che tale vincolo ha avuto per la politica italiana dell’ultimo ventennio, Diodato viene a sviluppare un’analisi preziosa, che riesce a cogliere la connessione fra alcune dinamiche interne e un processo che vede modificarsi il ruolo internazionale dell’Italia.
Ci sono in particolare tre nodi su cui Diodato si concentra, e su cui vale la pena soffermarsi. Un primo aspetto è rappresentato dalla sostanziale impreparazione cui la classe politica italiana della «Prima Repubblica» giunse all’appuntamento europeo di Maastricht. Con la dissoluzione del blocco sovietico, le tradizionali linee di politica estera adottate dall’Italia si trovarono in gran parte spiazzate da un quadro radicalmente nuovo. Il primo episodio in cui emersero le difficoltà fu senza dubbio la Guerra del Golfo del 1991, perché l’opposizione di Arafat all’intervento internazionale contro l’Iraq di Saddam Hussein mise in crisi il ruolo che l’Italia aveva assunto nello scacchiere mediterraneo, incrinando così l’immagine di «media potenza regionale» cui la classe politica del Belpaese aveva lavorato per decenni. Anzi i tentativi di nuovo attivismo sperimentati negli anni Ottanta – nel quadro della ‘nuova guerra fredda’ di Ronald Reagan – si rivelarono, dalla prospettiva del 1989, come «uno sforzo tutto sommato improduttivo e anzi dannoso per il paese», perché «non predispose di certo l’Italia ad affrontare l’appuntamento, molto più impegnativo, di Maastricht» (p. 91). L’assenza di una politica estera adeguata al passaggio in atto doveva invece aprire uno spazio di manovra alternativo, e in questo spazio venne a inserirsi proprio l’iniziativa di Carli, il quale comprese come nel nuovo scenario, successivo alla dissoluzione del blocco sovietico, le priorità della politica estera mutassero radicalmente, perché in particolare la riunificazione tedesca configurava un fattore di nuova instabilità. La conclusione del Trattato di Maastricht avvenne così anche sull’onda della riunificazione tedesca, e la sua architettura fu concepita – certo paradossalmente, giudicando come poi si sono snodate le vicende dell’Ue – come uno strumento con cui gli altri partner europei cercarono di vincolare la nuova Germania unita. Come scrive Diodato in questo senso: «La preoccupazione per il rafforzarsi sul continente di una nazione capace di sovrastare le altre spinse il governo italiano a sostenere con grande fiducia il mantenimento del Patto atlantico e, allo stesso, tempo, a procedere con forza verso l’unificazione politica oltre che monetaria dell’Europa. Si ritenne, infatti, che solo entro un’Europa più unita, ma difesa dal Patto atlantico, sarebbe stato possibile proseguire l’integrazione del continente senza che una nazione (cioè la Germania) prevalesse sulle altre. Tuttavia, questa posizione fu più una scommessa sul futuro che una ponderata scelta diplomatica» (p. 94). Il vincolo che da quel momento avrebbe pesato sull’Italia si è tradotto, nota anche Diodato, in un fardello sempre più gravoso: «non siamo in grado di capire se l’Unione saprà rivelarsi la risposta adeguata alla crisi della sovranità dello Stato moderno. Quel che sappiamo è che l’Italia, a causa del suo ritardo con la modernità, nel corso del Novecento si è trovata a dover gestire un vincolo esterno divenuto sempre più costrittivo. Il rischio è che l’attuale vincolo monetario possa paralizzare lo sviluppo democratico ed economico del paese, soprattutto se la corruzione politica renderà vana ogni virtù nazionale» (p. 103). Più in generale, dunque, il vincolo esterno – da potenziale risorsa – si è tramutato (forse definitivamente) in un peso insostenibile: «i vincoli esterni possono essere considerati salvifici nella misura in cui indicano una via (ragionevolmente univoca) di sviluppo moderno, e quindi sono gestiti o governati mediante una politica estera capace di trasformare le preferenze in potere nazionale. Altrimenti rischiano di paralizzare lo sviluppo democratico ed economico del paese, soprattutto se la riabilitazione ortopedico-monetaria e la rieducazione all’austerità economica non funzionano» (p. 133).
Un secondo nodo su cui Diodato si sofferma è invece costituito proprio dal «berlusconismo», ed è a questo proposito che si impegna in una discussione dell’interpretazione proposta da Giovanni Orsina, secondo il quale Silvio Berlusconi è stato – nell’intera vicenda unitaria – l’unico leader che non si sia proposto di ‘correggere’ gli italiani, mediante soluzioni ortopediche e pedagogiche. In realtà Diodato non concorda con l’interpretazione di Orsina, soprattutto perché tale lettura non considera in alcun modo l’insieme delle pressioni provenienti dall’esterno e dunque il peso del «vincolo esterno». A proposito della lettura avanzata dallo storico, Diodato osserva infatti che essa «non considera la realtà istituzionale dello Stato, quindi le condizioni politiche di esistenza della comunità nazionale e le relazioni internazionali che influenzano la direzione e il carattere delle istituzioni»: quella proposta da Orsina, dunque, è «una spiegazione tutta ripiegata all’interno del paese che esclude ogni riferimento al contesto esterno» (p. 147). Nelle pagine dello stesso Orsina, Diodato però scorge anche le tracce che conducono verso un’altra proposta, che in questo caso considera la parabola e le trasformazioni del «berlusconismo» proprio alla luce delle trasformazioni del quadro internazionale. Se il primo governo presieduto dall’imprenditore vede positivamente la globalizzazione e considera sufficiente ‘liberare’ le risorse presenti nella società italiana eliminando ‘lacci e lacciuoli’, il secondo governo Berlusconi – a partire dal 2001 – deve invece modificare la propria prospettiva, ricercando proprio nella politica (e in special modo nella politica estera) lo strumento grazie al quale legittimare la reazione al vincolo europeo. Naturalmente questi tentativi si risolvono in un fallimento e la caduta del quarto governo Berlusconi, nel novembre 2011, sancisce in modo inequivocabile la conclusione della parabola politica dell’imprenditore milanese, oltre che, al tempo stesso, la sconfitta del proposito di rovesciare il vincolo esterno.

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