domenica 1 ottobre 2017

Lo strano caso della rappresentanza. Il classico di Hanna Pitkin pubblicato da Rubbettino, con una prefazione di Alessandro Pizzorno




di Damiano Palano

Questa recensione al volume di Hanna Fenichel Pitkin, Il concetto di rappresentanza (Rubbettino), è uscita su "Avvenire" il 29 settembre 2017. 

Eletto al Parlamento nel collegio di Bristol il 3 novembre 1774, Edmund Burke tenne ai propri elettori un discorso destinato a essere ricordato come un momento di svolta nella storia della rappresentanza politica. «Esprimere un’opinione è diritto di tutti gli uomini», affermava Burke. Per questo un rappresentante avrebbe sempre dovuto tenere nel debito conto le opinioni dei concittadini. Ma avvertiva anche che «istruzioni e mandati» erano cose «sconosciute alle leggi di questa terra». In altre parole, il rappresentante non era in alcun modo vincolato a tutelare gli interessi dei suoi patrocinatori o del suo collegio. Il suo obiettivo doveva essere piuttosto l’interesse nazionale. Perché, come scriveva in un passaggio famoso, «il Parlamento non è un congresso di ambasciatori d’interessi diversi e l’un all’altro ostili», ma è «un’assemblea deliberativa di una unica Nazione, con un solo interesse, quello dell’intero». In quel modo Burke esplicitava il principio alla base del divieto di mandato imperativo, che sarebbe stato fissato in molte carte costituzionali, ma che sarebbe stato oggetto di ricorrenti contestazioni. Ed esplicitava anche un presupposto della nostra concezione della democrazia, che si basa infatti sull’idea che determinati organi istituzionali ‘rappresentino’ l’intera «nazione», e dunque che in Parlamento sieda – benché sia materialmente assente – il «popolo sovrano».
Le vie attraverso cui si giunse a questa concezione (specificamente moderna) sono state studiate da diverse prospettive. Ma un solido punto di riferimento è costituito senza dubbio dal Concetto di rappresentanza di Hanna Fenichel Pitkin, finalmente pubblicato da Rubbettino, con un’introduzione di Alessandro Pizzorno, a mezzo secolo dalla sua uscita negli Stati Uniti (pp. 393, euro 25.00). L’idea di fondo di Pitkin è che non sia possibile giungere a una definizione univoca della rappresentanza politica. In linea generale, scrive, «nella rappresentanza ciò che non è letteralmente presente è considerato presente in un senso non letterale». Ma il punto problematico è che le modalità con cui viene resa presente una cosa assente, oltre che gli stessi soggetti che la considerano tale, cambiano a seconda del contesto e degli utilizzi del concetto. Il fatto stesso che siano state date definizioni tanto diverse – per cui la rappresentanza è intesa come stare al posto di oppure agire per, ma anche come rappresentanza descrittiva e simbolica – non è inoltre il frutto di distorsioni ed errori, ma il segnale che ci sono divergenze sostanziali sul modo di concepirne il significato. Ed è allora indispensabile considerare l’idea della rappresentanza da varie angolature, esplorando il contesto nel quale viene modificata e ricostruendo le motivazioni che di volta inducono delle correzioni. 
Nel volume, insieme alla prefazione di Pizzorno, è inserito anche un testo in cui Pitkin, a molti anni distanza, tornando sulla sua vecchia ricerca, riconosce che la critica di Rousseau aveva colto un punto debole nel funzionamento della rappresentanza. «Nonostante ripetuti tentativi di democratizzare il sistema rappresentativo, il risultato prevalente», scrive, «è stato che la rappresentanza ha soppiantato la democrazia invece di porsi al suo servizio». «I nostri governanti si sono trasformati in un’élite autoreferenziale che governa – o, meglio, amministra – masse di persone passive o individualistiche», mentre «i rappresentanti non agiscono come agenti del popolo, ma semplicemente in sua vece». Non si tratta di una critica molto diversa da quella inalberata da quanti vedono nella classe politica solo una «casta» di parassiti. Ma Pitkin non ritiene che la soluzione consista nel sostituire una nuova democrazia diretta alla vecchia democrazia rappresentativa, o che alle elezioni debba essere preferito il sorteggio. Nel solco di Hannah Arendt ritiene piuttosto che la rappresentanza democratica sia possibile solo se poggia su una robusta rete di democrazia diretta a livello locale. Perché, come scrive, solo «partecipando attivamente alla vita locale, le persone imparano il vero significato della cittadinanza».

 Damiano Palano






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