venerdì 6 ottobre 2017

Guernica oggi e il ritorno inatteso della guerra civile. Una lezione di Luigi Bonanate



di Luigi Bonanate

Mecoledì 11 ottobre 2017, una lezione di Luigi Bonanate, pioniere in Italia degli studi di Relazioni Internazionali e noto soprattutto per le sue ricerche sulle trasformazioni del sistema globale e sui mutamenti della guerra, aprirà il ciclo "Il mondo in disordine. Dieci incontri sulla politica globale", presso l'aula Magna dell'Università Cattolica di Brescia (Via Trieste 17). Bonanate tornerà al bombardamento di Guernica del 1937 e al grande dipinto dedicato a quella tragedia da Pablo Picasso per riflettere non solo sui rapporti tra arte e guerra, ma anche per riconoscere in quel passaggio cruciale l’anticipazione della guerra civile globale di oggi. L'incontro sarà aperto da Damiano Palano. Interverranno Antonello Calore (Università di Brescia) e Francesco Tedeschi (Università Cattolica).

La guerra civile è tornata tra noi – o forse non se ne era mai andata, e ha semplicemente cambiato posto. Di guerre civili, l’Europa ne ha avute, nel XX secolo, di importantissime: in Spagna, in Italia, in Jugoslavia; e poi la Russia in Cecenia, e poi l’Ukraina, la Siria… Ma sembra che sia abbastanza facile dimenticarle. Dall’inizio del XXI secolo la guerra civile pare essersi insediata in quello che chiamiamo Medio Oriente (allargato) e si estende da una parte verso l’Asia centrale e dall’altra verso il Maghreb e l’Africa del Nord e del centro. Dovrà tutto ciò essere letto in una chiave geografica, dal che potremmo evincere che essa sia destinata a muoversi irrefrenabilmente, da una parte all’altra, oppure immaginare che sia in corso una straordinaria e spontanea azione di risistemazione delle condizioni di vita delle persone attraverso i continenti, per mezzo di una sorta di depurazione che insieme con le macerie e i cadaveri ricondurrebbe la storia sulla via del progresso? Persino l’arte se lo sta chiedendo… E se crediamo che l’arte sia vita, perché mai non potrebbe intrecciarsi con la guerra e cercare di spegnerla?
L’arte contemporanea (sarebbe meglio dire: le avanguardie artistiche) presta una straordinaria attenzione a ciò che sta succedendo nel mondo delle relazioni internazionali che comprendono al loro interno le diverse aree di crisi e di conflitto aperto. Produce prevalentemente opere «impegnate», che parlano di guerra: civile, interna, locale – ciascuna può essere l’indizio di una peggior difficoltà futura, l’inizio di un collegamento che mette in contatto tra loro situazioni che – se si sommassero – potrebbero avere conseguenze devastanti per l’intero mondo. Viviamo in un sistema politico internazionale completamente dis-fatto. Si può dire che ciò che ha avuto valore per 5 secoli ha perso ogni consistenza e capacità ordinatrice: senza ciò, ci si può avvicinare al precipizio. Senza regole, si perde ogni strumento di «irreggimentazione» delle tensioni.
Se Guernica è dunque la più straordinaria e affascinante prova della capacità dell’arte di sconfiggere la guerra, almeno nel cuore e nella mente di milioni di persone, l’arte di oggi assume (nuovamente) la funzione profetica di chi minaccia terribili sventure se non si provvederà a disinnescare i conflitti presenti ma anche a svuotare le contraddizioni emergenti che si trasformeranno, altrimenti, in nuove sciagure. Da Picasso a domani: un ciclo completo di storia – vorremmo che nessuno ne proclamasse la conclusione. Sarà l’arte a salvare il mondo? Non sappiamo la risposta, ma certamente per impegnarci nel riflettervi una condizione deve essere assolta: conoscere la guerra, capirla, studiarla, valutarne l’importanza rispetto alla strutturazione di ciascuno dei mondi che abbiamo conosciuto e potrebbero arrivare. Solo così potremo chiudere anche alle arti di contribuire alla comprensione e all’abolizione della violenza.

(da Luigi Bonanate, La vittoria di Gernika. Dalla guerra civile spagnola alla guerra civile mondiale, Aragno, 2017)

giovedì 5 ottobre 2017

Lo stallo catalano e la debolezza della politica



di Damiano Palano


Questa nota sul referendum per l'autodeterminazione della Catalogna è apparsa su Cattolica News il 5 ottobre 2017.


Ottant’anni dopo il tragico bombardamento di Guernica, la prova di forza a cui assistiamo tra la Generalitat catalana e il governo di Madrid torna a far aleggiare sulla Spagna le ombre del passato. Ogni paragone con il dramma della guerra civile rimane ovviamente – e fortunatamente – fuori luogo, eppure la sensazione di molti è che con il referendum di domenica si sia messo in moto un processo molto difficile da controllare.

Nella ricostruzione delle ragioni che hanno portato allo stallo di questi giorni sono state ampiamente ricordate le profonde radici culturali e le motivazioni economiche alla base dell’indipendentismo catalano. E in effetti si tratta di aspetti che non possono essere trascurati. L’identità culturale e linguistica catalana ha radici che affondano nella storia spagnola, oltre che in un movimento intellettuale e politico consolidatosi a partire dalla seconda metà dell’Ottocento e passato attraverso la lunga stagione della dittatura. La conquista dell’autonomia linguistica del catalano – di cui durante il franchismo era proibito l’utilizzo – è stata anche per questo una bandiera nella lotta contro Madrid. La rivendicazione di una maggiore autonomia fiscale rappresenta inoltre da decenni un punto critico dei rapporti con lo Stato spagnolo. Pur gestendo scuola, ospedali e polizia locale, il bilancio catalano dipende infatti dai trasferimenti del governo centrale. E se i suoi cittadini pagano in tasse ogni anno circa 60 miliardi, la Generalitat ne riceve dallo Stato circa 50. L’inizio del conflitto con Madrid parte in effetti proprio da queste due rivendicazioni. L’affiancamento del catalano al castigliano e una più consistente autonomia nella gestione del gettito fiscale sono il cuore del nuovo Statuto varato nel 2006 dalla Generalitat, nel quale la Catalogna viene definita come una “nazione”, seppur operante nel quadro dello Stato spagnolo. Il testo ottiene l’approvazione del Parlamento di Madrid, allora a maggioranza socialista, seppur con qualche sensibile attenuazione. Ma il punto di rottura si ha solo nel 2010, quando la Corte costituzionale, intervenendo sul ricorso promosso dal Partito Popolare di Rajoy (allora all’opposizione), di fatto riscrive lo Statuto, eliminando in larga parte l’autonomia fiscale e negando al catalano il medesimo rango della lingua castigliana. Da allora inizia il lungo braccio di ferro tra Barcellona e Madrid, passato per la grande manifestazione indipendentista dell’11 settembre 2012 e dal sondaggio consultivo del 9 novembre 2014 (in cui il l’80% dei votanti, pari però solo al 30% degli aventi diritto, si esprime a favore dell’indipendenza).

La bocciatura da parte della Corte costituzionale dello Statuto del 2006 spiega però solo in parte la dinamica degli ultimi anni. E soprattutto non spiega interamente perché le formazioni catalaniste siano passate nell’arco di pochi anni dalle tradizionali posizioni autonomiste a rivendicazioni esplicitamente indipendentiste. Un fattore tutt’altro che secondario è infatti la crisi che coinvolge in tutta Europa i partiti tradizionali e che porta al successo nuove formazioni, un po’ sbrigativamente chiamiate spesso “populiste”. La virata verso l’indipendentismo può infatti essere pienamente compresa solo all’interno di questo quadro.

A partire proprio dal 2010, lo scoppio della bolla immobiliare, l’esplosione della disoccupazione e i tagli al welfare sanciti prima dal governo Zapatero e poi dal governo Rajoy alimentano un clima di sfiducia e risentimento nei confronti della classe politica, che porta alla nascita di nuove forze “anti-casta” come Podemos e Ciudadanos. Anche Convergéncia i Unió (CiU), la coalizione per decenni alla guida della Generalitat e principale espressione dell’autonomismo catalano, finisce però con l’essere minacciata dal nuovo clima, se non altro perché il suo leader storico, Jordi Pujol, viene coinvolto in vari scandali giudiziari. Per far fronte a questa situazione CiU e il suo nuovo leader Artur Mas iniziano, in occasione delle elezioni autonomiche del 2012, a virare verso posizioni indipendentiste. E, contemporaneamente, incomincia ad aumentare nell’opinione pubblica anche il sostegno al progetto indipendentista.

In vista delle elezioni del settembre 2015, seguendo la nuova onda, si modifica il quadro del sistema politico catalano. Anche per effetto del terremoto politico che sta sconvolgendo la Spagna e la stessa Catalogna (dove a Barcellona le elezioni amministrativa vedono l’affermazione di una coalizione di sinistra radicale vicina a Podemos), Convergéncia i Unió si divide in due componenti: una contraria a ogni ipotesi secessionista (Unió Democratica de Catalunya), l’altra, Convergència Democràtica de Catalunya, guidata da Mas e a capo di una coalizione indipendentista, Junts pel Sí (JxSí), che comprende anche Esquerra Republicana de Catalunya (Erc), un partito repubblicano di centro-sinistra. Nel complesso le forze indipendentiste ottengono il 47% dei suffragi, ma riescono a conquistare la maggioranza assoluta dei seggi. Il governo si forma comunque solo dopo mesi di trattative, grazie al sostegno di una formazione di sinistra radicale catalanista come Candidatura d’Unitat Popular (Cup), decisiva con i suoi 10 seggi per sostenere una maggioranza. E a tenere faticosamente insieme questo fronte tanto eterogeneo – che va dalla destra fino all’estrema sinistra – è proprio un programma che promette di giungere all’indipendenza entro un anno e mezzo.

Il nuovo governo della Generalitat, guidato da una figura minore come Carles Puidgemont (preferito al troppo ingombrante Mas), risulta però estremamente debole, costantemente minacciato dalla difficile convivenza delle componenti che lo sostengono.  Ed è in fondo anche la fragilità delle leadership alla guida oggi sia della Catalogna sia della Spagna a spiegare la dinamica di questi giorni. Per un verso la fragilità della coalizione che sostiene Puidgemont – e che trova la propria ragion d’essere solo nella prospettiva dell’annunciata indipendenza – chiarisce infatti l’accelerazione del referendum di domenica. Ma, per l’altro, la debolezza del governo Rajoy, formatosi dopo le elezioni del 26 giugno 2016 (vinte dal PP, ma senza maggioranza), spiega la posizione di netta chiusura a ogni dialogo da parte di Madrid. Perché l’atteggiamento duro del governo spagnolo certo ha contribuito a rafforzare le posizioni degli indipendentisti in Catalogna. Ma, polarizzando la discussione tra “unionisti” e “indipendentisti”, ha probabilmente irrobustito nel resto del Paese la popolarità (tutt’altro che solida) di Rajoy, che può erigersi in questo modo a salvaguardia dell’unità dello Stato e della Costituzione democratica. Probabilmente, proprio puntando sulla “catalano-fobia” cresciuta negli ultimi anni in Spagna, Rajoy è riuscito ad arginare la crisi di consensi del Pp, dovuta anche ai numerosi scandali che hanno colpito il partito. E questo atteggiamento di chiusura ha favorito, a partire dal 2011, lo spostamento su posizioni fortemente critiche nei confronti degli autonomisti dello stesso Partito socialista (che anche per la sua contrarietà al referendum catalano non aveva trovato un accordo con Podemos per la formazione di un governo dopo le elezioni del dicembre 2015).

La logica dello scontro potrebbe rivelarsi alla fine difficile da gestire per entrambi i contendenti. Ma i margini di dialogo sembrano ormai davvero ridotti al minimo. Dopo il discorso del re Filippo e l’annuncio dell’imminente dichiarazione di indipendenza da parte di Puidgemont, lo scenario più probabile rimane l’intervento da parte di Madrid, con lo scioglimento del Parlamento della Generalitat, l’indizione di nuove elezioni e probabilmente l’arresto dei leader catalanisti.

Molti osservatori – tra cui lo stesso Puidgemont, ma anche il leader di Podemos Pablo Iglesias – hanno invocato nei giorni scorsi un ruolo di mediazione da parte dell’Unione europea. Non tanto perché l’Europa possa entrare in una questione che, evidentemente, rientra tra gli affari interni dello Stato spagnolo. Quanto perché probabilmente proprio questa strada rimane l’unica per attenuare lo scontro, per riportare i contendenti sul binario del dialogo, per evitare che, sull’onda della contrapposizione e della tensione emotiva di questi giorni, si giunga a decisioni irrevocabili. E forse anche per evitare il rischio che l’incertezza politica scateni il panico sulle piazze finanziarie del Vecchio continente. Ma è tutt’altro che scontato che l’Europa di oggi – lacerata da molte linee di divisione – trovi davvero la forza per rispondere a una crisi nata da due debolezze e per gestire uno stallo politico dalle conseguenze difficilmente prevedibili.

Damiano Palano

domenica 1 ottobre 2017

Lo strano caso della rappresentanza. Il classico di Hanna Pitkin pubblicato da Rubbettino, con una prefazione di Alessandro Pizzorno




di Damiano Palano

Questa recensione al volume di Hanna Fenichel Pitkin, Il concetto di rappresentanza (Rubbettino), è uscita su "Avvenire" il 29 settembre 2017. 

Eletto al Parlamento nel collegio di Bristol il 3 novembre 1774, Edmund Burke tenne ai propri elettori un discorso destinato a essere ricordato come un momento di svolta nella storia della rappresentanza politica. «Esprimere un’opinione è diritto di tutti gli uomini», affermava Burke. Per questo un rappresentante avrebbe sempre dovuto tenere nel debito conto le opinioni dei concittadini. Ma avvertiva anche che «istruzioni e mandati» erano cose «sconosciute alle leggi di questa terra». In altre parole, il rappresentante non era in alcun modo vincolato a tutelare gli interessi dei suoi patrocinatori o del suo collegio. Il suo obiettivo doveva essere piuttosto l’interesse nazionale. Perché, come scriveva in un passaggio famoso, «il Parlamento non è un congresso di ambasciatori d’interessi diversi e l’un all’altro ostili», ma è «un’assemblea deliberativa di una unica Nazione, con un solo interesse, quello dell’intero». In quel modo Burke esplicitava il principio alla base del divieto di mandato imperativo, che sarebbe stato fissato in molte carte costituzionali, ma che sarebbe stato oggetto di ricorrenti contestazioni. Ed esplicitava anche un presupposto della nostra concezione della democrazia, che si basa infatti sull’idea che determinati organi istituzionali ‘rappresentino’ l’intera «nazione», e dunque che in Parlamento sieda – benché sia materialmente assente – il «popolo sovrano».
Le vie attraverso cui si giunse a questa concezione (specificamente moderna) sono state studiate da diverse prospettive. Ma un solido punto di riferimento è costituito senza dubbio dal Concetto di rappresentanza di Hanna Fenichel Pitkin, finalmente pubblicato da Rubbettino, con un’introduzione di Alessandro Pizzorno, a mezzo secolo dalla sua uscita negli Stati Uniti (pp. 393, euro 25.00). L’idea di fondo di Pitkin è che non sia possibile giungere a una definizione univoca della rappresentanza politica. In linea generale, scrive, «nella rappresentanza ciò che non è letteralmente presente è considerato presente in un senso non letterale». Ma il punto problematico è che le modalità con cui viene resa presente una cosa assente, oltre che gli stessi soggetti che la considerano tale, cambiano a seconda del contesto e degli utilizzi del concetto. Il fatto stesso che siano state date definizioni tanto diverse – per cui la rappresentanza è intesa come stare al posto di oppure agire per, ma anche come rappresentanza descrittiva e simbolica – non è inoltre il frutto di distorsioni ed errori, ma il segnale che ci sono divergenze sostanziali sul modo di concepirne il significato. Ed è allora indispensabile considerare l’idea della rappresentanza da varie angolature, esplorando il contesto nel quale viene modificata e ricostruendo le motivazioni che di volta inducono delle correzioni. 
Nel volume, insieme alla prefazione di Pizzorno, è inserito anche un testo in cui Pitkin, a molti anni distanza, tornando sulla sua vecchia ricerca, riconosce che la critica di Rousseau aveva colto un punto debole nel funzionamento della rappresentanza. «Nonostante ripetuti tentativi di democratizzare il sistema rappresentativo, il risultato prevalente», scrive, «è stato che la rappresentanza ha soppiantato la democrazia invece di porsi al suo servizio». «I nostri governanti si sono trasformati in un’élite autoreferenziale che governa – o, meglio, amministra – masse di persone passive o individualistiche», mentre «i rappresentanti non agiscono come agenti del popolo, ma semplicemente in sua vece». Non si tratta di una critica molto diversa da quella inalberata da quanti vedono nella classe politica solo una «casta» di parassiti. Ma Pitkin non ritiene che la soluzione consista nel sostituire una nuova democrazia diretta alla vecchia democrazia rappresentativa, o che alle elezioni debba essere preferito il sorteggio. Nel solco di Hannah Arendt ritiene piuttosto che la rappresentanza democratica sia possibile solo se poggia su una robusta rete di democrazia diretta a livello locale. Perché, come scrive, solo «partecipando attivamente alla vita locale, le persone imparano il vero significato della cittadinanza».

 Damiano Palano






Guernica oggi e il ritorno inatteso della guerra civile. Una lezione di Luigi Bonanate

di Luigi Bonanate Mecoledì 11 ottobre 2017, una lezione di Luigi Bonanate , pioniere in Italia degli studi di Relazioni Internazionali...