mercoledì 27 settembre 2017

L’enigma della politica estera italiana (ieri, oggi, domani). Emidio Diodato a Brescia martedì 24 ottobre 2017




Nel secondo incontro del ciclo Il mondo in disordine, martedì 24 ottobre 2017, Emidio Diodato, professore di Scienza politica presso l’Università per Stranieri di Perugia, rifletterà sull’«enigma» della politica estera italiana in un secolo e mezzo di storia unitaria. A discutere la lettura di Diodato, introdotta da Mario Taccolini (Università Cattolica), saranno Carlo Muzzi («Giornale di Brescia») e Damiano Palano (Università Cattolica)



Emidio Diodato, politologo, insegna all’Università per Stranieri di Perugia. Ha già pubblicato: Che cos’è la geopolitica nel 2011,a curato il manuale Relazioni internazionali nel 2013 e con F. Guazzini nel 2014 La guerra ai confini d’Europa. Nel 2010 ha pubblicato Il paradigma geopolitico e nel 2014 Il vincolo esterno

Leggi una recensione al suo libro Vincolo esterno



L’ortopedia del «vincolo esterno». Un libro di Emidio Diodato sulla de-democratizzazione italiana dopo Maastricht

di Damiano Palano


Nel 1977 Guido Carli – che allora ricopriva la carica di Presidente di Confindustria, dopo essere stato dal ’60 al ’75 governatore della Banca d’Italia – rilasciò a Eugenio Scalfari una lunga intervista, nella quale esponeva la propria lettura del ‘caso italiano’ e della crisi in cui versava allora il paese. L’interpretazione che svolgeva Carli non era in fondo molto originale, perché individuava alla base della crisi economica un progressivo deterioramento dello «spirito imprenditoriale», un processo innescato inizialmente dalla nazionalizzazione dell’industria elettrica e dagli effetti negativi del credito agevolato, ma poi condotto a termine dalle mobilitazioni sindacali della fine degli anni Sessanta. Come sintetizzava nitidamente lo stesso Carli: «dal ’69 in poi questo processo di distruzione vera e propria dello spirito imprenditoriale ha registrato un’accelerazione senza confronti col passato. Lo Statuto dei lavoratori e la rigidità della forza-lavoro: sono stati questi i due momenti fondamentali del deterioramento della situazione. Con essi siamo arrivati al culmine della disgregazione del sistema» (G. Carli, Intervista sul capitalismo italiano, a cura di E. Scalfari, Laterza, Roma – Bari, 1977, p. 113). 
Se queste dinamiche, secondo Carli, avevano fatto precipitare la situazione dell’economia italiana, l’ex-governatore dalla Banca d’Italia ritrovava però anche una contraddizione di fondo nelle scelte compiute dalla classe politica italiana: una contraddizione che scaturiva, da un lato, dalla decisione adottata alla fine degli anni Cinquanta di aderire alla Comunità Europea, e, dall’altro, dal permanere di una diffidenza, se non di una vera e propria ostilità, nei confronti della logica dell’economia di mercato. In altre parole, secondo Carli la classe politica italiana non si era resa conto, al momento dell’adesione alla Cee, di cosa quella decisione avrebbe comportato, e in special modo non si era resa conto che – laddove non fosse intervenuto un adeguamento delle strutture del paese – l’economia nazionale non sarebbe stata in grado di affrontare la competizione degli altri partner europei. In questo senso Carli osservava, dinanzi all’allora direttore di «Repubblica»: «Fu un errore non rendersi conto delle conseguenze che quell’adesione avrebbe avuto e dei mutamenti che essa obbligatoriamente comportava. Mi sembra insomma che all’origine della nostra crisi vi sia una profonda contraddizione tra l’aver ‘affondato’ l’economia italiana nel sistema dell’economia di mercato dominante in tutt’Europa e, nello stesso tempo, l’aver conservato o addirittura accresciuto un atteggiamento di ostilità verso l’economia di mercato e verso i meccanismi che vi presiedono» (p. 65).
Carli naturalmente non era affatto contrario all’adesione alla Cee, di cui era stato anzi a suo tempo uno strenuo sostenitore e della cui opportunità continuava a essere fermamente convinto anche negli anni Settanta. Ciò di cui si rammaricava era invece la miopia della classe politica italiana, una miopia che scaturiva a suo avviso proprio dall’ostilità ‘culturale’ nei confronti del ruolo imprenditoriale da parte non solo del mondo sindacale e della sinistra, ma da parte anche di una porzione consistente del mondo democristiano. Ad avviso di Carli, non si trattava inoltre di elementi congiunturali, legati a quel periodo specifico, perché erano atteggiamenti profondamente radicati nella società italiana e molto difficili da scardinare o modificare. Proprio per questo dall’Intervista sul capitalismo italiano emergeva un marcato pessimismo, che certo non precludeva l’individuazione di qualche spazio d’azione, ma che d’altro canto appariva molto lontano dal prefigurare margini di ripresa. 
Nonostante le cupe previsioni di Carli, l’economia italiana iniziò di lì a qualche anno a mostrare segni rilevanti di ripresa, tanto che gli anni Ottanta – a torto o a ragione – sono ancora oggi ricordati da molti come una sorta di perduta «età dell’oro». Che quella crescita, per quanto favorita anche dall’esplosione del made in Italy, fosse in misura non marginale legata anche a quell’espansione del debito pubblico di cui ancora oggi ci troviamo a pagare le conseguenze, era però ben chiaro a Carli. Anche per questo non abbandonò neppure nel corso degli anni Ottanta la propria diffidenza nei confronti della classe politica italiana, giudicata inadeguata a gestire un paese sottoposto a crescenti pressioni internazionali. E così – prima ancora che esplodesse la crisi della cosiddetta «Prima Repubblica» – ricercò le condizioni per introdurre nel sistema italiano una sorta di riforma ‘invisibile’, capace di costringere gli attori politici a rispettare, persino contro la loro stessa volontà, la disciplina dei conti pubblici e i principi dell’economia di mercato. Più specificamente Carli – che fu Ministro del Tesoro nell’ultimo governo Andreotti, al principio degli anni Novanta – individuò nel negoziato europeo che avrebbe condotto alla firma del Trattato di Maastricht, il 7 febbraio 1992, l’opportunità per imporre al sistema italiano quello che più tardi, nelle sue memorie, l’ex-governatore definì un «vincolo esterno»: «La nostra scelta del ‘vincolo esterno’», si legge infatti nelle sue memorie postume, «nasce sul ceppo di un pessimismo basato sulla convinzione che gli istinti animali della società italiana, lasciati al loro naturale sviluppo, avrebbero portato altrove questo Paese» (G. Carli, Cinquant’anni di politica italiana, in collaborazione con Paolo Peluffo, Laterza, Roma – Bari, 1993, p. 267). Naturalmente la classe politica – che già non aveva intuito quali fossero le implicazione dell’adesione alla Comunità Europea – non comprese neppure quali sarebbero state le conseguenze di Maastricht, e in particolare – come lo stesso Carli non mancava di osservare – non si rese conto che, sottoscrivendo i vincoli fissati dal Trattato, accettava di fatto «un cambiamento di una vastità tale che difficilmente essa vi sarebbe passata indenne» (ibi, p. 437).
Oggi, a quasi un quarto di secolo dalle trattative che condussero a Maastricht, ci appare del tutto chiaro come il «vincolo esterno» abbia pesato sulla politica italiana molto più di ogni altro aspetto, tanto che persino l’intera parabola del bipolarismo della «Seconda Repubblica» può essere considerata come un tentativo – più o meno riuscito – di rispettare (o aggirare) quel vincolo. E proprio per questo è davvero importante il libro di Emidio Diodato, Il vincolo esterno. Le ragioni della debolezza italiana (Mimesis, pp. 172, euro 15.00), un testo che non si sofferma solo sul presente e sul passato recente, ma si spinge anche all’indietro, per meglio comprendere le radici di un processo che giunge a manifestarsi compiutamente solo al principio del XXI secolo. Il libro di Diodato, politologo dell’Università per Stranieri di Perugia, non è infatti solo dedicato alla politica italiana della «Seconda Repubblica», perché – adottando una prospettiva davvero fruttuosa, e assai poco praticata in Italia – tenta anche di cogliere l’interazione fra la dimensione interna e quella internazionale. Da questo punto di vista, Diodato richiama infatti la vecchia (ma spesso dimenticata) lezione di Otto Hintze, secondo cui il mutamento nell’assetto interno di uno Stato costituisce il riflesso – ovviamente non automatico – delle trasformazioni del sistema internazionale. E, inoltre, ricostruisce la relazione problematica fra lo Stato e la democrazia in Italia, evidenziando la portata dei due «vincoli esterni» che, prima di quello di Maastricht, ‘ancorarono’ il sistema: l’adesione agli istituti di Bretton Woods, dopo la seconda guerra mondiale, e l’entrata nel Sistema Monetario Europeo nel 1979. Ma ovviamente l’analisi è proiettata soprattutto sul terzo «vincolo esterno», rappresentato da Maastricht. E proprio riesaminando il significato che tale vincolo ha avuto per la politica italiana dell’ultimo ventennio, Diodato viene a sviluppare un’analisi preziosa, che riesce a cogliere la connessione fra alcune dinamiche interne e un processo che vede modificarsi il ruolo internazionale dell’Italia.
Ci sono in particolare tre nodi su cui Diodato si concentra, e su cui vale la pena soffermarsi. Un primo aspetto è rappresentato dalla sostanziale impreparazione cui la classe politica italiana della «Prima Repubblica» giunse all’appuntamento europeo di Maastricht. Con la dissoluzione del blocco sovietico, le tradizionali linee di politica estera adottate dall’Italia si trovarono in gran parte spiazzate da un quadro radicalmente nuovo. Il primo episodio in cui emersero le difficoltà fu senza dubbio la Guerra del Golfo del 1991, perché l’opposizione di Arafat all’intervento internazionale contro l’Iraq di Saddam Hussein mise in crisi il ruolo che l’Italia aveva assunto nello scacchiere mediterraneo, incrinando così l’immagine di «media potenza regionale» cui la classe politica del Belpaese aveva lavorato per decenni. Anzi i tentativi di nuovo attivismo sperimentati negli anni Ottanta – nel quadro della ‘nuova guerra fredda’ di Ronald Reagan – si rivelarono, dalla prospettiva del 1989, come «uno sforzo tutto sommato improduttivo e anzi dannoso per il paese», perché «non predispose di certo l’Italia ad affrontare l’appuntamento, molto più impegnativo, di Maastricht» (p. 91). L’assenza di una politica estera adeguata al passaggio in atto doveva invece aprire uno spazio di manovra alternativo, e in questo spazio venne a inserirsi proprio l’iniziativa di Carli, il quale comprese come nel nuovo scenario, successivo alla dissoluzione del blocco sovietico, le priorità della politica estera mutassero radicalmente, perché in particolare la riunificazione tedesca configurava un fattore di nuova instabilità. La conclusione del Trattato di Maastricht avvenne così anche sull’onda della riunificazione tedesca, e la sua architettura fu concepita – certo paradossalmente, giudicando come poi si sono snodate le vicende dell’Ue – come uno strumento con cui gli altri partner europei cercarono di vincolare la nuova Germania unita. Come scrive Diodato in questo senso: «La preoccupazione per il rafforzarsi sul continente di una nazione capace di sovrastare le altre spinse il governo italiano a sostenere con grande fiducia il mantenimento del Patto atlantico e, allo stesso, tempo, a procedere con forza verso l’unificazione politica oltre che monetaria dell’Europa. Si ritenne, infatti, che solo entro un’Europa più unita, ma difesa dal Patto atlantico, sarebbe stato possibile proseguire l’integrazione del continente senza che una nazione (cioè la Germania) prevalesse sulle altre. Tuttavia, questa posizione fu più una scommessa sul futuro che una ponderata scelta diplomatica» (p. 94). Il vincolo che da quel momento avrebbe pesato sull’Italia si è tradotto, nota anche Diodato, in un fardello sempre più gravoso: «non siamo in grado di capire se l’Unione saprà rivelarsi la risposta adeguata alla crisi della sovranità dello Stato moderno. Quel che sappiamo è che l’Italia, a causa del suo ritardo con la modernità, nel corso del Novecento si è trovata a dover gestire un vincolo esterno divenuto sempre più costrittivo. Il rischio è che l’attuale vincolo monetario possa paralizzare lo sviluppo democratico ed economico del paese, soprattutto se la corruzione politica renderà vana ogni virtù nazionale» (p. 103). Più in generale, dunque, il vincolo esterno – da potenziale risorsa – si è tramutato (forse definitivamente) in un peso insostenibile: «i vincoli esterni possono essere considerati salvifici nella misura in cui indicano una via (ragionevolmente univoca) di sviluppo moderno, e quindi sono gestiti o governati mediante una politica estera capace di trasformare le preferenze in potere nazionale. Altrimenti rischiano di paralizzare lo sviluppo democratico ed economico del paese, soprattutto se la riabilitazione ortopedico-monetaria e la rieducazione all’austerità economica non funzionano» (p. 133).
Un secondo nodo su cui Diodato si sofferma è invece costituito proprio dal «berlusconismo», ed è a questo proposito che si impegna in una discussione dell’interpretazione proposta da Giovanni Orsina, secondo il quale Silvio Berlusconi è stato – nell’intera vicenda unitaria – l’unico leader che non si sia proposto di ‘correggere’ gli italiani, mediante soluzioni ortopediche e pedagogiche. In realtà Diodato non concorda con l’interpretazione di Orsina, soprattutto perché tale lettura non considera in alcun modo l’insieme delle pressioni provenienti dall’esterno e dunque il peso del «vincolo esterno». A proposito della lettura avanzata dallo storico, Diodato osserva infatti che essa «non considera la realtà istituzionale dello Stato, quindi le condizioni politiche di esistenza della comunità nazionale e le relazioni internazionali che influenzano la direzione e il carattere delle istituzioni»: quella proposta da Orsina, dunque, è «una spiegazione tutta ripiegata all’interno del paese che esclude ogni riferimento al contesto esterno» (p. 147). Nelle pagine dello stesso Orsina, Diodato però scorge anche le tracce che conducono verso un’altra proposta, che in questo caso considera la parabola e le trasformazioni del «berlusconismo» proprio alla luce delle trasformazioni del quadro internazionale. Se il primo governo presieduto dall’imprenditore vede positivamente la globalizzazione e considera sufficiente ‘liberare’ le risorse presenti nella società italiana eliminando ‘lacci e lacciuoli’, il secondo governo Berlusconi – a partire dal 2001 – deve invece modificare la propria prospettiva, ricercando proprio nella politica (e in special modo nella politica estera) lo strumento grazie al quale legittimare la reazione al vincolo europeo. Naturalmente questi tentativi si risolvono in un fallimento e la caduta del quarto governo Berlusconi, nel novembre 2011, sancisce in modo inequivocabile la conclusione della parabola politica dell’imprenditore milanese, oltre che, al tempo stesso, la sconfitta del proposito di rovesciare il vincolo esterno.

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