giovedì 21 settembre 2017

L’Italia senza bussola nel lungo inverno europeo. La politica estera della «Seconda Repubblica» nell’analisi di Emidio Diodato



di Damiano Palano

In una calda serata romana dell’estate 1915, mentre percorreva via Nazionale, Francesco Saverio Nitti ebbe modo di incrociare l’allora Presidente del Consiglio Antonio Salandra, che – come ogni giorno, al termine della giornata di lavoro – compiva una lunga passeggiata igienica per rientrare nella sua abitazione di via Carducci. Invitato da Salandra, Nitti – che rievocò l’episodio nelle sue memorie – accompagnò il Presidente del Consiglio nel tratto che conduce verso piazza Termini, e fatalmente, dopo alcuni cortesi convenevoli, la conversazione tra i due uomini politici finì per cadere sulla guerra. «Io» - ricorda Nitti - «evitavo di dirgli cosa alcuna che potesse dispiacergli; poi che in quel momento avevo risoluto di non creare difficoltà al governo. Ma fu egli stesso che mi disse che le cose procedevano bene, quantunque gli Austriaci avessero mostrato un’organizzazione e una resistenza maggiore di quello che si poteva supporre nei primi giorni». Pur senza esprimere apertamente i propri timori, Nitti non mancò di manifestare la sensazione che la guerra sarebbe stata lunga, e che avrebbe comportato per questo difficoltà notevoli. Proprio queste perplessità sollevarono in Salandra il sospetto che il collega non avesse abbandonato il proprio pessimismo. E lo scambio successivo fra i due statisti risolta da questo punto di vista quasi sconcertante, oltre che rilevatore. «Io gli risposi» - scrive Nitti - «che non ero pessimista e credevo alla vittoria finale, ma che mi rendevo conto della realtà. E a mia volta gli chiesi: “L’inverno sarà duro nelle Alpi. Hai provveduto completamente agli approvvigionamenti invernali per l’esercito?” Si fermò di botto. Eravamo sotto un fanale. Ricordo ancora la sua impressione di sorpresa e la sua aria diffidente. Mi disse: “Il tuo pessimismo è veramente inguaribile. Credi che la guerra possa durare oltre l’inverno?”»
Per chi rilegga le memorie di Nitti a un secolo di distanza dalla carneficina della Prima guerra mondiale, l’esibito ottimismo di Salandra non può che suonare piuttosto familiare. Perché, nel corso della «Seconda Repubblica», l’esibizione di ottimismo esasperato – un ottimismo talvolta caricaturale, ma sempre sprezzante nei confronti di quanti, sottolineando semplici dati di realtà, finiscono per essere svillaneggiati come alfieri di un deprecabile ‘sfascismo’ – ha spesso costituito l’arma retorica principale di tutti i principali leader che si sono succeduti a Palazzo Chigi. Anche se – presto o tardi – il forzato ottimismo ha invariabilmente avuto la peggio nell’impietoso confronto con i fatti. Ma forse le memorie di Nitti possono anche offrire un buon prologo per rileggere l’intera storia italiana dell’ultimo trentennio. Perché probabilmente si può riconoscere qualcosa della sconcertante combinazione fra sventato ottimismo, colpevole dilettantismo e criminale improvvisazione, che trascinò l’Italia nella tragedia della Grande guerra, anche nelle dinamiche che condussero la classe politica della tramontante «Prima Repubblica» a sottoscrivere la decisione destinata a determinare il destino del Paese per decenni, e cioè la firma del Trattato di Maastricht.
Alcuni anni fa, nel suo prezioso volume Il vincolo esterno. Le ragioni della debolezza italiana (Mimesis, Milano, 2114), rileggeva proprio le dinamiche che avevano condotto l’Italia a Maastricht, inserendo quella decisione all’interno di una storia di lungo periodo. L’idea di fondo di Diodato – un politologo che, col garbo compassato dello studioso super partes, riesce, quasi senza darlo a vedere, a smontare pezzo dopo pezzo molti dei più consolidati e frusti luoghi comuni della discussione sul ‘caso italiano’ – era che  il mutamento nell’assetto interno di uno Stato costituisca sempre il riflesso delle trasformazioni che si producono nel sistema internazionale. Ma, soprattutto, in quel libro Diodato - anche sulla scorta dell'impostazione illustrata in alcuni suoi testi precedenti, come in particolare Il paradigma geopolitico (Meltemi, Roma, 2010) e Che cos'è la geopolitica (Carocci, Roma 2013) - tentava di cogliere l’intreccio strettissimo tra la dimensione interna e quella internazionale della politica italiana, sottolineando il peso che avevano avuto – nell’indirizzare la democratizzare italiana del secondo dopoguerra – tre «vincoli esterni»: innanzitutto, l’adesione agli istituti di Bretton Woods, dopo la seconda guerra mondiale; in secondo luogo, l’entrata nel Sistema Monetario Europeo nel 1979; e infine l’adesione ai rigidi parametri fissati a Maastricht. Fra le molte sollecitazioni che quel volume sottoponeva al dibattito (anche relative al modo di concepire gli studi politici), Diodato suggeriva una risposta alla domanda sui motivi che avevano spinto la classe politica della «Prima Repubblica», ormai al termine della sua parabola, a sottoscrivere (e anzi ad appoggiare con entusiasmo) un trattato che, di fatto, comportava la fine della ‘sovranità economica’ italiana e che, soprattutto, implicava enormi rischi per l’economia del Paese. La tesi di Diodato, da questo punto di vista, era quasi cristallina: con la dissoluzione del blocco sovietico, le tradizionali linee di politica estera adottate dall’Italia risultarono rapidamente inservibili, tanto da mettere in crisi l’immagine di «media potenza regionale» costruita nel corso dei decenni.

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Nel secondo incontro del ciclo Il mondo in disordine, martedì 24 ottobre 2017, Emidio Diodato, professore di Scienza politica presso l’Università per Stranieri di Perugia, rifletterà sull’«enigma» della politica estera italiana in un secolo e mezzo di storia unitaria. A discutere la lettura di Diodato, introdotta da Mario Taccolini (Università Cattolica), saranno Carlo Muzzi («Giornale di Brescia») e Damiano Palano (Università Cattolica)




Emidio Diodato, politologo, insegna all’Università per Stranieri di Perugia. Ha già pubblicato: Che cos’è la geopolitica nel 2011,a curato il manuale Relazioni internazionali nel 2013 e con F. Guazzini nel 2014 La guerra ai confini d’Europa. Nel 2010 ha pubblicato Il paradigma geopolitico e nel 2014 Il vincolo esterno.

mercoledì 20 settembre 2017

"Il mondo in disordine". Aperte le iscrizioni online. La partecipazione è libera




Sono aperte le iscrizioni online al ciclo di incontri Il mondo in disordine che si terrà all'Università Cattolica di Brescia
(Via Trieste 17)


Qui il link al modulo di iscrizione online.

La partecipazione al ciclo di incontri è libera e gratuita.

Il ciclo è rivolto principalmente agli studenti del corso di laurea di Scienze politiche e delle relazioni internazionali ma è aperto anche al pubblico esterno.
Per avere la garanzia del posto è preferibile iscriversi online. Al termine del ciclo i partecipanti che ne faranno richiesta riceveranno un attestato di partecipazione.


Qui il primo appuntamento del ciclo

Dopo più di un quarto di secolo dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica, il mondo è ancora molto lontano da quel «nuovo ordine» che sembrava dovesse nascere dalle ceneri della Guerra fredda. Dopo il 2001 gli scenari di crisi non hanno anzi cessato di estendersi. La politica di potenza ha fatto nuovamente la propria comparsa nel Vecchio continente e persino le stabili alleanze ereditate dalla fine della Seconda Guerra Mondiale mostrano qualche segno di logoramento. Ma le linee di crisi si estendono soprattutto al di fuori dell’Occidente, alimentando guerre civili, diffondendo la logica del terrore e facendo riaffiorare addirittura l’incubo dell’olocausto nucleare. Tanto che, come ha ricordato in più occasioni Papa Francesco, sembra di assistere a una «guerra mondiale a pezzi». Come dobbiamo interpretare questi conflitti? Sono espressione dello «scontro delle civiltà» descritto oltre vent’anni fa da Samuel Huntington? Oppure sono la conseguenza dell’emergere di un sistema internazionale multipolare, nel quale si affacciano nuovi protagonisti? E quale futuro dobbiamo attenderci da un mondo in cui l’Occidente non occupa più il centro?
Sono questi alcuni degli interrogativi affrontati nel ciclo Un mondo in disordine. Dieci incontri per leggere la politica globale, che si svolge presso l’Università Cattolica di Brescia a partire da ottobre 2017 fino ad aprile 2018. Gli incontri - introdotti da Damiano Palano e Andrea Plebani - vedono la partecipazione di autorevoli studiosi di differente orientamento disciplinare e sono rivolti, oltre che agli studenti, anche a un pubblico interessato ad approfondire la conoscenza dei principali nodi della politica contemporanea.

martedì 19 settembre 2017

L’enigma della politica estera italiana. Un'intervista a Emidio Diodato




Nel secondo incontro del ciclo Il mondo in disordine, martedì 24 ottobre 2017, Emidio Diodato, professore di Scienza politica presso l’Università per Stranieri di Perugia, rifletterà sull’«enigma» della politica estera italiana in un secolo e mezzo di storia unitaria. A discutere la lettura di Diodato, introdotta da Mario Taccolini (Università Cattolica), saranno Carlo Muzzi («Giornale di Brescia») e Damiano Palano (Università Cattolica)



Emidio Diodato, politologo, insegna all’Università per Stranieri di Perugia. Ha già pubblicato: Che cos’è la geopolitica nel 2011,a curato il manuale Relazioni internazionali nel 2013 e con F. Guazzini nel 2014 La guerra ai confini d’Europa. Nel 2010 ha pubblicato Il paradigma geopolitico e nel 2014 Il vincolo esterno.

Leggi l'intervista di Virgilio Caprara a Emidio Diodato realizzata in occasione del G7 di Taormina e tratta dal blog "L'indro"

Aspettando il G7

In una Taormina blindata, i Capi di Stato e di Governo dei Paesi economicamente ‘forti’ e i rappresentanti dell’UE nella persona del Presidente del Consiglio Europeo e del Presidente della Commissione, si riuniranno fra 3 giorni per l’incontro di vertice presieduto dall’Italia, incontro che produrrà un comunicato politicamente vincolante per tutti i membri del G7.
I temi in agenda sono diversi e spaziano dalla questione migratoria agli scambi internazionali, dalla sicurezza interna al controllo delle frontiere, dalle nuove economie automatizzate al clima e alla sostenibilità ambientale. In veste di Presidente, l’Italia manterrà alta la centralità geopolitica del Mediterraneo, nel solco di un discorso fondato sui valori comuni e sul rinnovo della fiducia costitutiva che portò, già a metà degli anni Settanta, alla nascita del Vertice. Peraltro, l’attuale politica estera statunitense, le criticità sollevate dalla fuoriuscita dall’Unione della Gran Bretagna e l’esclusione di interlocutori importanti come la Cina e, soprattutto, la Russia sollevano ombre e questioni aperte che oltrepassano l’esito puntuale dell’incontro di venerdì.
Nel tentativo di comprenderne le cause, abbiamo discusso dell’Italia e del suo ruolo come attore della politica estera mondiale con il Prof. Emidio Diodatoesperto in politica internazionale e Presidente del Corso di Laurea in «Relazioni Internazionali e Cooperazione allo Sviluppo» all’Università per Stranieri di Perugia.
Professor Diodato, è possibile tracciare l’evoluzione della politica estera italiana considerando il processo di europeizzazione segnato dal Trattato di Maastricht (durante la transizione alla «Seconda Repubblica») e il ruolo dell’Italia nel Mediterraneo?
Qualche anno dopo la caduta del Muro, è avviato un processo che modificherà la politica estera e anche interna del Paese. La tappa decisiva in tal senso è segnata dal biennio 1996-1998, quando il Governo Prodi implementa il Trattato di Maastricht (del 1992), sancendo l’ingresso dell’Italia nella moneta unica, quindi accettando il ruolo jquasi costituzionale che il Trattato attribuiva alla Banca Centrale Europea. Al contempo, ciò implica l’accettazione della comunitarizzazione degli accordi di Schengen, cioè gli accordi sulla frontiera comune. Ritengo questo biennio fondamentale, in quanto si tratta di due scelte di politica estera.
Da una parte, infatti, troviamo la rinuncia alla sovranità monetaria da parte di un Paese dal forte indebitamento, che ha sempre fatto leva sul debito pubblico per il suo sviluppo e la modernizzazione economica.  Dall’altra, il fatto che l’Italia, una penisola del Mediterraneo, decida di diventare una frontiera europeain assenza di una politica europea sulle migrazioni. La mia non vuole essere una critica di quelle scelte, ma una presa d’atto della loro rilevanza, nella convinzione che, ancora oggi, gli italiani non le abbiano capite e completamente accettate, al di là dello spirito europeista che comunque è ancora presente nel Paese.
Nello scenario attuale, rispetto agli argomenti che saranno oggetto di dibattito in sede al G7, troviamo in agenda temi molto diversi. La  questione migratoria, la sostenibilità ambientale, sono ambiti decisionali per molti versi distinti e separati. Quali possono essere i rischi di ‘vuoto’? In altri termini, cosa rischia di saltare in un contesto come quello del vertice rispetto all’efficacia di una discussione rivolta a grandi aree tematiche ritenute prioritarie?
Dirò due cose in proposito. Ricollegandomi all’argomento precedente, relativo all’importanza della scelta di Maastricht e Schengen nella politica estera e interna dell’Italia, nel 2013, per quanto concerne il secondo degli aspetti (cioè l’Italia come Paese mediterraneo e frontiera comune di Schengen) l’Italia ha preso una iniziativa di politica estera autonoma rispetto all’Unione Europea, una ‘fuga in avanti‘ operata con la Missione «Mare Nostrum». L’Italia, a un certo punto, non ascoltata dagli altri Paesi europei, ha deciso in maniera unilaterale di intervenire nel Mediterraneo nel tentativo di gestire i flussi migratori, ponendo la questione a livello europeo.
Da allora, la politica estera italiana – soprattutto nel periodo del Governo Renzi – ha cercato di prendere l’iniziativa, un’iniziativa mediterranea ed euro-africana con la proposta all’UE, nell’aprile del 2016, del «Migration Compact», volta a trovare un nesso tra politica estera europea e politiche migratorie (attraverso patti di investimento, cooperazione nel controllo delle frontiere e nuove opportunità di ingresso legale in Europa). Posso ricordare un articolo, apparso il 28 maggio 2015 su «Foreign Affairs», dell’allora Ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, che in seguito, come Primo Ministro (dopo la caduta del Governo Renzi), ha continuato a perseguire questa linea. Quell’articolo è centrato sul Mediterraneo come ‘pivot’ della Storia, vale a dire come spazio inteso addirittura come perno della politica occidentale. Pertanto, l’Italia ha assunto una chiara iniziativa su queste tematiche.
Non è un caso che – veniamo al secondo aspetto della domanda – , quest’anno, ovvero l’anno di presidenza del G7, l’Italia abbia posto al primo punto delle tre priorità del G7 la gestione dalla mobilità umana, con particolare attenzione a quel che accade nel Mediterraneo e nei rapporti con i Paesi africani. Quindi è fuori dubbio che, dal 2013 al 2017, la politica estera italiana si sia orientata, in modo a mio giudizio positivo, verso il Mediterraneo e verso l’Africaper certi versi anche forzando l’Unione Europea ad assumersi le sue responsabilità. Questa è una diretta conseguenza della comunitarizzazione degli accordi di Schengen, del fatto che l’Italia sia diventata frontiera europea ed è, se vogliamo, la prova che si tratta di scelte di politica estera, come gli atti appena descritti dimostrano.
“Tuttavia, non so quali risultati questo G7 potrà portare rispetto a tali priorità. L’Italia è stato il Paese che, già dalla sua ultima presidenza del 2001, iniziò a coinvolgere i Paesi africani, quindi esiste una importante tradizione in questo. E anche nel G7 di Taormina saranno coinvolti i Paesi africani. Il tema della mobilità umana si lega anche al tema del terrorismo, ma sappiamo che c’è stato un vertice a Riad, di natura molto diversa, dove erano già presenti molti Paesi mediorientali e africani. Non so se nella mente del Presidente Trump il vertice di Taormina possa essere più importante di quello che ha già svolto a Riad. Temo che l’iniziativa italiana non troverà successo. Come, del resto, è già evidentemente fallita, ad aprile, la seconda priorità italiana del G7, cioè quella di riportare gli Stati Uniti al discorso sull’Accordo per il clima di Parigi. Il fatto che il «G7 Energia» (tenutosi a Roma il 9 e 10 aprile scorsi) si sia concluso senza un documento finale condiviso ne è la prova. Dubito che Trump, parlando questa mattina con Papa Francesco, si sia fatto convincere a inserire nel documento di Taormina la questione dello sviluppo sostenibile. Potrei sbagliarmi, ma temo che anche questa seconda priorità non arrivi a risultati”.
“La terza, quella dell’innovazione e della nuova economia produttiva automatizzata e interconnessa (c.d. «Industria 4.0»),  è un tema generale che risponde al tentativo italiano di allargare il G7 alla società civile, includendo il business. Si tratta di una pregevole iniziativa, ma anche qui  l’attuale amministrazione USA ha un’idea diversa della governance multilaterale rispetto all’apertura ‘sociale’ avanzata dall’Italia. Credo pertanto che i risultati saranno piuttosto limitati“.
Sulla scia di un commento pessimista di Romano Prodi, rilasciato a Marco Damilano in una recente intervista per «L’Espresso», nel quale l’ex premier storce il naso sul potenziale rappresentativo e decisionale degli ultimi G7, quanto possono pesare l’assenza della Cina e della Russia dal vertice di Taormina? 
Il G7 nasce durante la Guerra fredda, come luogo di incontro dei Paesi più industrializzati al mondo e, tuttora, rappresenta questo: potremmo dire, in altre parole, che l’esclusione di Russia e Cina da quel contesto ‘ha ancora un senso’. È pur vero che il G7, dopo gli eventi degli anni Novanta e la nuova riorganizzazione del sistema internazionale intorno al ‘mito’ della globalizzazione, ha tentato di trasformarsi in una struttura di governance internazionale più efficace, includendo la Russia – che pure non era un Paese industrializzato – e creando un G7+1, ossia un G8. Chiaramente, in questa prospettiva, avrebbe avuto senso includere, in un secondo tempo, anche la Cina. Si tratta un processo di riorientamento post-blocco, nella prospettiva di assumere una nuova veste istituzionale. Non è un caso che, da parte dei diplomatici, nel 1998 vi furono tentativi di creare un raccordo tra i 5 membri permanenti del Consiglio di Sicurezza ONU e il G8. Era un po’ come se la governance internazionale potesse procedere con due ‘motori‘, il secondo dei quali (il G8) avrebbe potuto, in un futuro prossimo, comprendere la Cina. Poi però è accaduto che, dopo l’annessione della Crimea, la Russia sia stata allontanata dal G8 (nuovamente G7 dal 2014), con l’esito tuttora effettivo di una retromarcia rispetto all’inclusione dei due Paesi.
Nondimeno, ci chiediamo se valga ancora la pena farlo oggi, laddove quel ruolo integrativo è assolto dal G20: il prossimo vertice di Amburgo sarà il luogo in cui la Russia avrà voce in capitolo. Paradossalmente, forse il G7 potrebbe funzionare meglio tornando alla sua originaria natura, pur rinunciando all’ambizione di diventare il secondo motore del governo mondiale. Tuttavia, con la funzione assunta del G20, il G7 potrebbe diventare il luogo in cui i Paesi più industrializzati e più affini dal punto di vista della politica estera (al di là delle contingenze dell’Amministrazione Trump) potrebbero preparare e definire una ‘missione’ comune da portare al G20, tenendo conto anche che il G7 ormai include l’Unione Europea al massimo livello. Quello sarebbe un modo in cui i principali Paesi industrializzati dell’Europa, con L’Unione Europea, riescono a coordinare le loro politiche con Stati Uniti, Giappone, Canada, Francia e anche Gran Bretagna: proprio in ragione dell’uscita di quest’ultima dall’UE, il G7 potrebbe avere un ruolo importante in questo senso. Pertanto, pur condividendo le perplessità di Prodi, dico che tutto sommato è meglio per il G7 rimanere quello che è. Personalmente, non sono deluso dal fatto che l’Italia non abbia preso l’iniziativa di riportare la Russia a Taormina. Era un atto velleitario. Non penso che se fallirà – come prevedo – questo G7, sia da imputare al Governo l’errore di non aver insistito su questa condizione.
Tutto sommato, l’Italia, con queste priorità, ha comunque ribadito le sue posizioni. Se in questa fase Trump ha priorità diverse, non potremo certo imporle noi agli Stati Uniti, però possiamo ricordargli che ci sono anche altri Paesi che hanno le nostre idee. Per esempio, Macron potrebbe essere la vera sorpresa – l’incontro con Gentiloni, avvenuto la scorsa domenica, sembrerebbe già annunciarlo. Dopo Angela Merkel, Macron si è congratulato con l’Italia, che ora potrebbe trovarsi l’Europa dalla sua parte. Inoltre il suo attuale ruolo nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite potrebbe, in qualche modo, esercitare una minima pressione su Trump.

Rileggere Miglio nell'età della guerra “senza forma”



di Damiano Palano

Questa recensione alla nuova edizione del saggio di Gianfranco Miglio, Guerra, pace, diritto (La Scuola), è apparsa su "Avvenire" del 1 luglio 2016 con il titolo "L'idea di Miglio sulla regolarità del ciclo politico".

All’inizio degli anni Quaranta del secolo scorso, mentre la tempesta bellica scuoteva l’Europa, Gianfranco Miglio elaborò l’ambizioso progetto di una storia dei diversi tentativi di regolare la guerra compiuti in Occidente. Quel lavoro – che l’allora giovane studioso identificò con la formula «Humana Respublica» - avrebbe dovuto portare alla luce gli ostacoli che avevano impedito la messa al bando della violenza, e cosa avesse dunque sbarrato la strada verso la pace universale. Dopo alcuni anni Miglio abbandonò però quel piano di lavoro perché rivide radicalmente la propria visione delle relazioni tra politica e diritto (e dei rapporti tra politica interna e politica estera). L’incontro teorico con Carl Schmitt – un pensatore sul quale allora gravava ancora, ben più di oggi, il peso del suo sostegno al regime nazionalsocialista – doveva infatti convincere Miglio che il «politico» ha sempre a che vedere con la distinzione tra «amico» e «nemico», e dunque a riconoscere una connessione strutturale tra politica e conflitto. Abbandonata l’ambizione della «Humana Respublica», da quel momento lo studioso comasco avrebbe cercato di unificare in un sistema coerente le «regolarità della politica», e cioè le tendenze connesse all’«essenza» dei fenomeni politici individuate dai grandi pensatori realisti. Per effetto di questa sostanziale revisione teorica, lo studioso avrebbe inoltre accantonato gli interessi internazionalistici per concentrarsi sulle dinamiche interne agli Stati. Ma molti anni più tardi, nella primavera del 1981, mentre in Italia era viva la polemica sugli «Euromissili», Miglio fu invitato a un convegno sulla guerra organizzato dalla sezione veneta dell’Istituto Gramsci. E proprio in quell’occasione tornò a riflettere sulle relazioni fra le comunità politiche, ‘distillando’ i risultati della sua indagine sul tema in una relazione intitolata Guerra, pace, diritto, che viene ora ripubblicata, accompagnata da un saggio introduttivo di Massimo Cacciari (La Scuola, pp. 73, euro 7.90).
Quando delineava la propria «ipotesi generale sulle regolarità del ciclo politico», Miglio rilevava innanzitutto – sulle orme di Max Weber – come lo Stato moderno fosse riuscito a ‘privatizzare’ tutti i conflitti interni e, dunque, a conquistare il «monopolio della forza legittima». Se in questo modo lo Stato era riuscito a ‘pacificare’ il territorio compreso tra i suoi confini, lo spazio esterno era rimasto però irrimediabilmente segnato dalla violenza (almeno in modo potenziale). Rilevare la connessione originaria fra politica e conflitto – una connessione suggerita anche dall’ipotesi di un legame etimologico fra polis e polemos – non significava però arrendersi alla prospettiva di un conflitto senza limiti. Il problema principale che Miglio si poneva era anzi rappresentato dalle condizioni (culturali e tecnologiche) che storicamente avevano consentito di ‘regolare’ il conflitto mediante regole giuridiche. 
Il mondo che Miglio aveva di fronte più di trent’anni fa evidentemente non esiste più, e – come rileva opportunamente Cacciari – la guerra sembra oggi diventare davvero una guerra totale, perché senza limiti e senza “forma”. Ciò nonostante meriterebbero di essere riprese almeno alcune delle ipotesi che Miglio delineava, come in particolare quelle relative ai mutamenti innescati sul sistema internazionale dalla comparsa degli arsenali nucleari. Probabilmente, sono infatti anche questi mutamenti che – facendo svanire del tutto la funzione ordinativa della guerra – favoriscono la crescita della conflittualità interna, la disgregazione del «monopolio della forza legittima» e l’erosione della vecchia sovranità statale. E, forse, sono proprio questi stessi mutamenti che rimettono di nuovo al centro la domanda su come pensare oggi una «Humana Respublica».

Damiano Palano

lunedì 18 settembre 2017

La democrazia ci salverà dalla guerra civile globale? Luigi Bonanate a Brescia mercoledì 11 ottobre 2017





Ad aprire il ciclo Il mondo in disordine sarà, mercoledì 11 ottobre 2017, una lezione di Luigi Bonanate, pioniere in Italia degli studi di Relazioni Internazionali e noto sopratt miutto per le sue ricerche sulle trasformazioni del sistema globale e sui mutamenti della guerra. Ottant’anni dopo, discutendo con Antonello Calore (Università di Brescia) e Francesco Tedeschi (Università Cattolica), Bonanate tornerà al bombardamento di Guernica del 1937 e al grande dipinto dedicato a quella tragedia da Pablo Picasso per riflettere non solo sui rapporti tra arte e guerra, ma anche per riconoscere in quel passaggio cruciale l’anticipazione della guerra civile globale di oggi.



Luigi Bonanate è professore emerito presso l’Università di Torino, dove ha insegnato per quarant’anni Relazioni internazionali. Insegna Pace e ordine internazionale alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale e Relazioni internazionali nella Struttura interdipartimentale di Scienze strategiche. È socio corrispondente dell’Accademia delle Scienze di Torino. I suoi principali settori di studio sono la teoria delle relazioni internazionali, la teoria della democrazia e il terrorismo. Tra gli scritti più recenti, Anarchia o democrazia. La teoria politica internazionale del XXI secolo (Carocci 2015) e Dipinger guerre (Aragno 2016).
Leggi qui una recensione al suo volume Anarchia o democrazia. La teoria politica internazionale del XXI secolo 



La democrazia (forse) salverà il mondo. L'ultimo libro di Luigi Bonanate

di Damiano Palano

Questa recensione al nuovo volume di Luigi Bonanate, Anarchia o democrazia. La teoria politica internazionale del XXI secolo (Carocci, pp. 134, euro 12.00), è apparsa su "Avvenire" del 13 novembre 2015.

È ormai trascorso più di un quarto di secolo dalla fine della Guerra fredda e dalla dissoluzione del blocco sovietico. Il lungo dopoguerra non ha però ancora partorito uno stabile ordine internazionale. E pare così davvero lontano l’ottimismo di quegli intellettuali che, sul finire del secolo scorso, salutarono euforicamente l’inizio dell’«era unipolare», destinata a consegnare agli Stati Uniti il ruolo di unica superpotenza globale, garante di un impero liberale fondato sui principi democratici e sulla libertà di mercato. A partire dal trauma dell’11 settembre 2001 gli scenari di crisi hanno anzi continuato a estendersi, giungendo fino alle porte dell’Europa, senza che neppure si siano profilate ipotesi realistiche di soluzioni durature. 
È proprio all’instabilità dello scenario globale che è dedicato l’ultimo libro di Luigi Bonanate, Anarchia o democrazia. La teoria politica internazionale del XXI secolo (Carocci, pp. 134, euro 12.00). La tesi che sostiene Bonanate è per molti versi radicale. Secondo lo studioso, dopo il 1989 il sistema internazionale è infatti diventato ‘anarchico’. E il punto cruciale è che questo dato costituisce una novità clamorosa, l’effetto di una dirompente «rivoluzione internazionale». Per molti politologi – e in particolare per i cultori del ‘realismo’ – l’arena internazionale è sempre stata contrassegnata da una costitutiva ‘anarchia’. In questa prospettiva, dal momento che nel contesto internazionale non esiste nessuna autorità politica superiore capace di imporre e far rispettare la legge con la forza coercitiva, gli Stati sovrani devono provvedere da soli a tutelare la propria sicurezza. E per questo si trovano a operare in un contesto molto simile allo «stato di natura» descritto da Thomas Hobbes, in cui regna il bellum omnium contra omnes e in cui ciascuno deve guardarsi dai propri simili. Secondo Bonanate, invece, il sistema interstatale moderno non è mai stato realmente ‘anarchico’, ma è sempre stato contrassegnato da un «ordine», basato soprattutto sulle regole dettate dalla potenza vincitrice di una guerra e dunque dai rapporti di forza sanciti da un conflitto generale. Con il 1989 si rompe però il legame fra «guerra» e «ordine» che ha segnato la modernità. La Guerra fredda finisce infatti col collasso di una delle due superpotenze senza che venga sparato un solo colpo. Probabilmente, osserva Bonanate, questa soluzione è anche l’esito dell’ingresso del mondo nell’era in cui diventa tecnicamente possibile l’autodistruzione nucleare. Ma la «rivoluzione internazionale» del 1989 segna così l’inizio di una nuova stagione ‘postmoderna’, in cui il sistema sembra davvero diventare anarchico, perché «nessun ordine solido, stabile e condiviso in queste nuove condizioni può esistere». 


Luigi Bonanate a Brescia mercoledì 11 ottobre per parlare di Guernica a ottant'anni dal bombardamento del 1937




Ad aprire il ciclo Il mondo in disordine sarà, mercoledì 11 ottobre 2017, una lezione di Luigi Bonanate, pioniere in Italia degli studi di Relazioni Internazionali e noto soprattutto per le sue ricerche sulle trasformazioni del sistema globale e sui mutamenti della guerra. Ottant’anni dopo, discutendo con Antonello Calore (Università di Brescia) e Francesco Tedeschi (Università Cattolica), Bonanate tornerà al bombardamento di Guernica del 1937 e al grande dipinto dedicato a quella tragedia da Pablo Picasso per riflettere non solo sui rapporti tra arte e guerra, ma anche per riconoscere in quel passaggio cruciale l’anticipazione della guerra civile globale di oggi.



Luigi Bonanate è professore emerito presso l’Università di Torino, dove ha insegnato per quarant’anni Relazioni internazionali. Insegna Pace e ordine internazionale alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale e Relazioni internazionali nella Struttura interdipartimentale di Scienze strategiche. È socio corrispondente dell’Accademia delle Scienze di Torino. I suoi principali settori di studio sono la teoria delle relazioni internazionali, la teoria della democrazia e il terrorismo. Tra gli scritti più recenti, Anarchia o democrazia. La teoria politica internazionale del XXI secolo (Carocci 2015) e Dipinger guerre (Aragno 2016).
Leggi qui una recensione al suo volume Undicisettembre



di Damiano Palano

Che differenza può fare un giorno? Dopo l’11 settembre 2001, la domanda cui rispondeva negli anni Settanta Esther Phillips è stata riproposta centinaia, migliaia, milioni di volte. Ci si è chiesti, così, se ciò che avvenne a New York in quel giorno fatale abbia davvero cambiato la storia del mondo. E se proprio in quel mattino di fine estate le traiettorie della politica globale siano state effettivamente dirottate dal binario che avevano sino a quel momento seguito, e indirizzate verso scenari del tutto imprevedibili.
Mentre si avvicina il decimo anniversario degli attentati alle Twin Towers, quella stessa domanda torna a risuonare ancora una volta. E proprio a questo interrogativo Luigi Bonanate cerca di rispondere nel suo nuovo libro, Undicisettembre. Dieci anni dopo (Bruno Mondadori, 2011, pp. 151, euro 13.00).
Nei mesi immediatamente successivi al’11 settembre 2001, molti interpreti, non senza eccessi retorici, sposarono con convinzione la tesi per cui nulla sarebbe più stato ‘come prima’. In altre parole, gli attacchi terroristici di New York furono considerati come un evento capace di imprimere una frattura netta e non rimarginabile nella storia mondiale, nella politica internazionale, nella vita quotidiana.
Nel suo libro, anche Bonanate riconosce la portata dell’evento e delle sue implicazioni. E per questo si riferisce all’undicisettembre come all’insieme delle interpretazioni (politiche, scientifiche, artistiche) con cui si è cercato di comprendere ciò che effettivamente avvenne quel giorno. In realtà, però, Bonanate si discosta da tutte quelle letture che – più o meno enfaticamente – hanno intravisto negli attentati del 2001 l’inizio di una nuova stagione politica. Certo, l’evento ha avuto enormi conseguenze sulla società americana, sul sistema politico statunitense, sulla strategia di Washington, sulla natura di una guerra divenuta sempre più nettamente asimettrica. E, inoltre, ha innescato una radicale trasformazione del nostro immaginario. Eppure – questa è la tesi di Bonanate – non ha determinato una cesura nell’evoluzione storica del sistema internazionale.
La vera svolta della politica internazionale va ricercata invece più di dieci anni prima, il 9 novembre 1989, quando – insieme al simbolico crollo del Muro di Berlino – si sgretolano il blocco sovietico e il secondo pilastro del sistema bipolare della Guerra fredda.  In altri termini, come scrive Bonanate, “l’11 settembre è un evento storico, ma non ha cambiato la direzione della storia, anzi forse ha accelerato quella che si stava già scrivendo”. Non sono cioè gli attentati terroristici di New York a mutare il sistema internazionale, ma è a partire da quel momento che diventa chiaro che la struttura delle relazioni internazionali non può più essere ricondotta agli schemi tradizionali. Perché “è da quel giorno che si vede chiaramente che né unilateralismo né bipolarismo o tanto meno multipolarismo colgono più il segno dei tempi”.


A dieci anni da quel giorno drammatico, possiamo forse dire che l’11 settembre 2001 non abbia davvero cambiato la direzione della storia. Ma, probabilmente, diventa chiaro solo adesso che proprio in quelle ore abbiamo compreso la fragilità di un mondo “senza bussola”. In effetti, come sostiene Bonanate, a più di due decenni dalla fine della Guerra fredda, “non si è formato un nuovo sistema internazionale, non esistono nuove regole del gioco, gli attori sono indecisi sul loro stesso ruolo”. Nel corso dell’ultimo decennio, le ambizioni dell’“era unipolare” si sono inoltre rivelate del tutto illusorie, ed è ormai evidente che gli Stati Uniti non potranno svolgere il ruolo di egemone globale che si erano prefissi.


domenica 17 settembre 2017

Tecnocrati e migranti: Il lungo inverno europeo. Un'intervista a Emidio Diodato



Nel secondo incontro del ciclo Il mondo in disordine, martedì 24 ottobre 2017, Emidio Diodato, professore di Scienza politica presso l’Università per Stranieri di Perugia, rifletterà sull’«enigma» della politica estera italiana in un secolo e mezzo di storia unitaria. A discutere la lettura di Diodato, introdotta da Mario Taccolini (Università Cattolica), saranno Carlo Muzzi («Giornale di Brescia») e Damiano Palano (Università Cattolica)



Emidio Diodato, politologo, insegna all’Università per Stranieri di Perugia. Ha già pubblicato: Che cos’è la geopolitica nel 2011,a curato il manuale Relazioni internazionali nel 2013 e con F. Guazzini nel 2014 La guerra ai confini d’Europa. Nel 2010 ha pubblicato Il paradigma geopolitico e nel 2014 Il vincolo esterno.

Leggi l'intervista di Nicola Guarino a Emidio Diodato realizzata in occasione del volume "Tecnocrati e migranti" (2016) e tratta da "Altritaliani"
Oggi il trattato di Schengen con la conseguente l’apertura delle frontiere interne sembra essere stato di fatto abbandonato e, mentre il governo italiano sembra preso e compreso nel suo sforzo umanitario di accoglienza, dappertutto si alzano muri e reticolati, si minaccia il ripristino dei controlli alla frontiera e la Commissione fatica ad avere una voce univoca operando spesso con due pesi e due misure a seconda se l’interlocutore è la Grecia o l’Italia piuttosto che l’Austria o la Francia. Cosi mentre il mar Mediterraneo diventa sempre più con l’avanzare della bella stagione un cimitero, l’Europa sembra prossima al suo malinconico capolinea.
Ecco, perché diventa importante conoscere questo libro che entra nel cuore del problema ed è per questo che abbiamo intervistato l’autore il professore Emidio Diodato, già nostro collaboratore con la sua rubrica Italy.
NG. Caro Emidio, il tuo libro si chiama Tecnocrati e migranti. Due figure che per opposti motivi non raccolgono oggi la simpatia di molti. Perché questo titolo e qual è il rapporto tra queste due figure sociologiche?
ED. Raymond Aron collocava in posizione centrale nello politica estera le figure-simbolo del “soldato”, che rappresenta lo stato nel momento del conflitto, e del “diplomatico”, che lo rappresenta in quello della trattativa. Queste figure dell’Europa tardo-ottocentesca non appaiono più decisive nelle dinamiche intergovernative del vecchio continente. Emerge oggi, nella sua autonomia anche in politica estera, la figura-simbolo del “tecnocrate”, vale a dire colui che rappresenta lo stato nel momento della crescente complessità delle funzioni di governo dell’Unione. Non sono i decisori politici, impiegando soldati e diplomatici, a tornare in campo per riprendersi la sovranità perduta nell’Europa di Maastricht e Schengen. Ma sono i tecnocrati nazionali a tentare di rimettere in moto il progetto europeo entrato in crisi. Ciò avviene allorché la conoscenza si associa a una competenza tecnica alla quale, pur partendo da un sapere specialistico, è accordato uno statuto generale in grado di realizzare l’indispensabile unità di orientamento per il maggior benessere collettivo. Il tecnocrate è insomma dotato di un intrinseco potere egemonico, poiché mentre il tecnico si qualifica come uno specialista o esperto del particolare, il tecnocrate si propone come un generalista capace di pensare un piano sintetico per l’azione sociale. D’altro canto, la crisi economica e la crisi migratoria si accompagnano a una generale crisi di legittimità dell’Unione europea. Per quanto concerne in particolare la seconda crisi, ossia quella migratoria, non è certo possibile elevare anche il “migrante” a figura-simbolo della politica estera. Tuttavia, il migrante assegna ai tecnocrati il compito di mantenere una solidarietà europea de facto, senza che gli elettori nazionali cedano al sospetto che l’Unione imponga ai suoi membri di accogliere i richiedenti asilo nell’interesse di uno a scapito dell’altro. Il prodotto finale di questo rapporto tra tecnocrati e migranti risiede quindi nella sfida del migrante al ruolo del tecnocrate.

NG. Il sottotitolo, molto impegnativo, è l’Italia e la politica estera dopo Maastricht. Un tema quello della politica estera italiano che già affrontasti nel tuo precedente libro: “Il vincolo esterno”. Il nostro paese appare, pur essendo tra gli stati fondatori dell’Unione europea, sempre come in una condizione d’inferiorità. In ogni occasione ci è rinfacciato il nostro debito pubblico, la cui storia è vecchia ed annosa. Tu ricordi come in piena crisi economica nel 1977, la sinistra si scatenò contro l’allora presidente della Confindustria Carli, che in un’intervista a Scalfari aveva criticato la rigidezza dello statuto dei lavoratori, che a suo parere alimentava la crisi economica. Sono gli anni in cui esplode il debito pubblico. Quaranta anni dopo la sinistra con lo Jobs act arriva alle tesi di Carli. Quanto hanno pesato i ritardi nella politica economica italiana e nella credibilità del paese rispetto all’Europa?
ED. Maastricht e Schengen rappresentano le decisioni più importanti che l’Italia ha preso dopo l’improvvisa e inaspettata fine della Guerra fredda. L’attuazione di Maastricht, in particolare, si accompagna alla crisi del sistema dei partiti e ha favorito quella transizione politica che ci si è affrettati a denominare “Seconda Repubblica”. È questa condizione, ossia il forte legame tra livello europeo e livello domestico, a rendere il caso italiano particolarmente rilevante. Per quanto concerne la sinistra italiana, è evidente che l’impronta europeista del centro-sinistra ha delineato un percorso geopolitico che, se ha consentito ai post-comunisti si rilegittimarsi, ha orientato la sinistra italiana in una direzione che devia radicalmente dalla strada dell’internazionalismo comunista. Si pensi che ancora nel dicembre 1978, il rifiuto del Partito comunista italiano di aderire allo Sistema monetario europeo rappresentò il casus belli sul quale si chiuse l’esperienza della solidarietà nazionale, ossia il compromesso con i democristiani. In quella occasione lo stesso Napolitano intervenne in Parlamento con toni molto duri contro il Sistema monetario europeo.
NG. Anche in questo tuo ultimo libro torni sul tema del vincolo esterno, molte riforme in Italia si sono avviate asserendo che era l’Europa che le chiedeva. Ricordi questo tema anche a proposito della legge “Turco-Napolitano” sull’immigrazione, anche in quel caso la “imposizione” europea era uno strumento per condizionare il consenso. Oggi l’Europa è in crisi di consensi e di credibilità, ritieni sia ancora possibile che questo vincolo possa essere efficacie nel condizionare la politica e in particolare quella estera italiana?
ED. L’immagine dell’Europa di Schengen come di una fortezza che respinge il proletariato immigrato non è un’invenzione delle sinistra radicale contemporanea. Nel corso del dibattito sulla legge Martelli, fu sempre Napolitano uno dei principali oppositori della filosofia degli accordi di Schengen. La legge denominata Turco-Napolitano, approvata nel marzo 1998, consentì invece l’ingresso dell’Italia nel sistema di Schengen. Come ha mostrato Simone Paoli, si può affermare che tra il 1996 e il 1997 il processo di europeizzazione della politica immigratoria italiana avvenne secondo le classiche logiche del vincolo esterno. Una parte della classe politica nazionale, ossia il centro-sinistra, utilizzò l’argomento dell’imposizione europea come mezzo per creare consenso e senso di urgenza.

NG. Come si puo’ spiegare che l’Italia tra i sei paesi fondatori dell’Unione che ha partecipato alla stesura del trattato di Maastricht fu escluso dalla stesura del trattato di Schengen, quello che oggi è nella bufera delle contraddizioni europee e che ricordiamo liberalizza la circolazione delle persone e delle merci nel territorio dell’Unione europea. L’Italia vi aderì nel 1990 seguito un anno dopo dalla Spagna e Portogallo e poi nel ’92 dalla Grecia.
ED. Il ritardo con cui l’Italia fece il suo ingresso nell’Europa di Schengen è imputabile, infatti, all’ambizione del governo Craxi negli anni Ottanta di favorire una proiezione internazionale del capitalismo italiano nelle sue aree di riferimento tradizionali, Mediterraneo e Medio Oriente. Con l’ingresso nell’Europa di Schengen, qualsiasi scelta mediterranea e mediorientale del paese avrebbe dovuto confrontarsi con la decisione di rispettare il sistema europeo di regolamentazione dei flussi, nella condizione di paese di confine dell’Unione. Ciò spiega perché il governo italiano, che fu il primo a firmare un accordo di adesione a Schengen, seguito da Spagna, Portogallo e Grecia, fu poi l’ultimo a fare il suo ingresso nel sistema europeo.
NG. Opportunamente tu ricordi nel libro che con Schengen si erano liberalizzate le frontiere tra gli stati dell’unione ma non fu prevista una salvaguardia di quelle che tu chiami “frontiere esterne”, eppure la questione profughi non era una novità di questi ultimi anni, la Germania, come ben ricordi era preoccupata per il passaggio di profughi dai Balcani o dall’Albania, dopo la caduta del muro e dopo le sanguinose guerre nella ex Jugoslavia, come fu possibile una tale omissione a danno della sicurezza della comunità? Fu un caso che i paesi più impegnati oggi sul tema emigrazione come Italia, Spagna, Grecia, fossero invitate solo ad aderire e a non costruire il trattato di Schengen?
ED. Come scrivo nel libro, il “regolamento di Dublino” di cui l’Unione si è dotata si basa sul principio che un solo stato membro è competente per l’esame della domanda di asilo. L’obiettivo, infatti, è quello di prevenire l’abuso del sistema con la presentazione di domande di asilo multiple da parte di una sola persona. Ma l’obiettivo è anche evitare che i richiedenti asilo siano inviati da un paese ad un altro. È lo stato membro competente per la domanda di asilo che deve prendersi carico del richiedente, ossia accoglierlo se ha diritto all’asilo come prevede il diritto internazionale, oppure rimandarlo indietro. In una situazione di normalità o di flussi migratori limitati, il regolamento ha una sua razionalità nel distribuire le competenze assegnandole agli stati in cui è presentata la domanda di asilo. Ma quando il flusso migratorio assume le sembianze di un esodo inarrestabile, almeno nell’immaginario delle opinioni pubbliche nazionali, allora il sistema si dimostra inefficace se non innesca un meccanismo tecnico che preveda un travaso di competenze dal livello nazionale a quello europeo.
NG. L’Italia nell’ultimo ventennio ha cercato di giocare un suo ruolo nella politica estera anche a prescindere dall’Europa. Tu ricordi l’impegno per la soluzione dei profughi albanesi, e poi le operazioni militari in Albania o in Somalia, e la contraddittoria posizione rispetto al conflitto nel Kossovo. Un intervento a volte di grande utilità, ma sempre con un occhio alla politica interna, che provincializza, se si puo’ dire, la nostra politica estera. Ma mi sembra preoccupante l’assenza di una politica europea uniforme sul tema. Come ti spieghi che i tecnocrati possano imporre in scioltezza il patto di stabilità in economia ai paesi e viceversa restare del tutto inascoltati quando si tratta di politica estera e di politica migratoria in particolare?
ED. A questo proposito ricordo soltanto che durante l’intervento del 2011 in Libia, attraverso l’ambasciata di Parigi il governo italiano lamentò la mancanza di “collegialità e collaborazione” tra Italia e Francia. Ancora in questi giorni il sostegno francese all’Egitto e l’impegno italiano a sostegno del governo di Tripoli corrono su binari paralleli. Non credo ci si possa attendere maggiore convergenza in questa fase storica.

NG. Caro Emidio, ti senti di fare una previsione su come potrebbe finire l’esperienza europea, tra contrasti e contraddizioni perenni su temi ineludibili come quello dell’emigrazione. Tra varchi che si aprono e muri che si alzano? Tra frontiere esterne che accolgono e frontiere interne che si riformano in spregio a Schengen. L’Inghilterra sembra sulla via dell’uscita e intanto sta per chiudersi il Brennero tra l’Austria e l’Italia, qualcosa di più di un semplice frontiera un simbolo di un Europa che sembrava passata. Siamo alla fine dell’esperienza dell’Europa unita?
ED. Non vedo alternative all’Unione europea, se non nei populismi che contrappongono sovranismo a europeismo. Recensendo il mio libro, Damiano Palano ha ricordato un incontro tra Nitti e Salandra, presidente del consiglio di allora, in una estate romana del 1915. Nitti manifestò le sue perplessità su ciò che avveniva al confine con l’Austria e chiese se il governo era pronto ad affrontare il lungo inverno. La risposta fu sconcertante: “Il tuo pessimismo è veramente inguaribile. Credi che la guerra possa durare oltre l’inverno?”. In fondo nel mio libro mi interrogo su come l’Italia possa affrontare, senza bussola, il “lungo inverno europeo”.
Nicola Guarino

La «guerra a pezzi» di un mondo in disordine



di Damiano Palano
Questo testo è apparso il 20 giugno 2016 come prima puntata della "Quindicina internazionale".



Sono passati venticinque anni dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica e dal momento in cui il mondo scoprì di essere diventato «unipolare». Con la fine del Patto di Varsavia e la disgregazione dell’Urss, la politica globale non perse infatti semplicemente una delle due «superpotenze» protagoniste dalla «guerra fredda», ma le basi stesse su cui per quasi mezzo secolo si era retto l’equilibrio bipolare. Nel corso di questi venticinque anni il dibattito politologico ha cercato di fissare i tratti distintivi del «nuovo ordine mondiale», soprattutto nel tentativo di trovare precedenti storici e così di prevedere le possibili traiettorie di sviluppo. Realisti come Kenneth Waltz e John Mearsheimer formularono per esempio previsioni che – pur procedendo in una direzione diversa – concordavano sull’idea che si sarebbero riproposte le classiche dinamiche dell’equilibrio di potenza, e che dunque la riconquista di un nuovo ordine sarebbe giunta a seguito di un (problematico) processo di bilanciamento e ridefinizione delle alleanze consolidate. Altri osservatori ritennero invece che la novità del quadro emerso dopo il 1989 e il 1991 fosse tale da rendere del tutto inservibili le chiavi di lettura tradizionali. Francis Fukuyama – con una formula spesso fraintesa, eppure destinata a fissare rapidamente lo Zeitgeist degli anni Novanta – scrisse che la «Storia» (nel suo significato hegeliano) si era conclusa, perché la liberaldemocrazia occidentale aveva sconfitto per sempre i suoi storici avversari, ponendo dunque termine alla stessa «evoluzione ideologica» del genere umano. Sottolineando invece che, per la prima volta nella storia moderna, la politica mondiale era dominata da un’unica potenza, Charles Krauthammer scrisse che la nuova fase politica poteva essere descritta come un «momento unipolare». Negli anni seguenti non pochi si spinsero d’altronde a prevedere che quel «momento» era destinato a trasformarsi in una duratura «era unipolare». E qualcuno proposte anche più o meno ingegnose analogie tra l’Impero di Roma e il ‘nuovo Impero’ di Washington, o tra la lunga Pax Augustea e la stagione della Pax Americana che sembrava profilarsi dopo la conclusione della Guerra Fredda. Pur senza disconoscere almeno alcuni tratti dell’assetto «unipolare», Samuel Huntigton attirò invece l’attenzione sul ruolo che le «civiltà» – e non più gli Stati – avrebbero avuto nei conflitti del futuro. E proprio questa lettura, fissata nella formula dello «scontro delle civiltà», avrebbe fornito forse la chiave di lettura mediaticamente più efficace per interpretare gli attentati terroristici dell’11 settembre 2001.

Guernica oggi e il ritorno inatteso della guerra civile. Una lezione di Luigi Bonanate

di Luigi Bonanate Mecoledì 11 ottobre 2017, una lezione di Luigi Bonanate , pioniere in Italia degli studi di Relazioni Internazionali...